‘Io mi fido di te’, di Luciana Littizzetto

Racconta l’esperienza dell’affido, Io mi fido di te, il nuovo libro di Luciana Littizzetto edito da Mondadori. Un «pezzo di vita» della popolare attrice vividamente narrato nelle sue quotidiane difficoltà, una stanchezza però surclassata dall’amore per i propri figli. «Perché i figli nati solo dal cuore sono ancora più figli degli altri.»

La Littizzetto, inizialmente, non vive un pressante bisogno di genitorialità: «Per me potevo anche stare senza figli. Non ho mai avuto quel desiderio incontenibile di ventre gonfio, di vita in crescita dentro le viscere e di allattamenti da Madonna col bambino. La coppia funzionava, non facevamo nulla per impedire una gravidanza o per favorirla. […] Non avvertivo una reale mancanza. Piuttosto un sentimento vago, un’ipotesi di futuro soffocata da un presente chiassoso.»

Poi ecco montare l’idea che fosse possibile: «chiacchierando con Maria, la mitica Defilippica, nella sua casa luminosa piena di cani e di Costanzi, mi confidò che aveva iniziato un’esperienza di affido». E così, dopo «lunghi colloqui con assistenti sociali e psicologhe», arriva il primo incontro: due bambini, un maschio e una femmina, Jordan e Davide, nove anni lui e undici lei, entrano finalmente a far parte della vita di Luciana e del suo compagno Davide, batterista di Vinicio Capossela.

La vera differenza tra adozione e affido è che «Nel primo caso, dopo le lunghe fatiche e gli anni di attesa, quando il bambino atterra nelle tue braccia è TUO. I legami passati, perlomeno quelli burocratici, sono recisi per sempre. C’è un’appartenenza totale sancita dalla legge. Nell’affido no. Nell’affido la mamma o il padre naturali ti dicono: «Tieni, spalanca le braccia, prendi questo bambino, nutrilo, amalo, crescilo, perché noi ora non possiamo occuparcene, già stiamo facendo una fatica boia a vivere, figurati pensare anche a lui». E domani? «Domani chi lo sa. Speriamo tanto che tutto si sistemi, ma non possiamo garantire. Comunque, se alla fine della strada toccherà scegliere, è chiaro che noi, essendo i genitori biologici, saremo privilegiati. Ovvio.» Ovvio sulla carta. Ma l’ovvio, si sa, dentro al cuore ci sta stretto. […] Nell’affido, e questa è un’altra differenza rispetto all’adozione, i bambini sono più grandicelli. Dei topoloni che si son fatti lunghi anni di comunità, parcheggiati lì nell’attesa di una risoluzione del loro contratto di vita, delle anime affaticate e tormentate. Se i servizi sociali ti chiedono di occuparti di un neonato, tendenzialmente è per un periodo non più lungo di un anno. Poi il piccolo va in adozione. Invece per la schiera di bimbi più grandi le dinamiche sono meno definite. Alcuni tornano nella famiglia naturale, altri rimangono fino alla maggiore età nella famiglia affidataria. In certi casi i genitori biologici perdono la patria potestà, in altri mantengono un legame con la famiglia affidataria per tutto il percorso di crescita.»

Luciana scopre così la difficile realtà della maternità: «Ciascuna è madre a modo suo. Uniformarsi e tentare di eguagliare dei modelli diversi temo non sia una scelta salutare. Il tuo essere madre dipende da mille variabili. Dal carattere, dall’attitudine, dal mestiere che fai, dalla tua storia di figlia e di sorella, dalla tua esperienza di moglie o di compagna. Non sta agli altri giudicare. L’unica cosa che conta è il coraggio di guardarsi allo specchio e chiedersi: sto facendo tutto quello che posso? Se la risposta è sì, non c’è proprio niente da aggiungere.»

Il racconto delle quotidiane vicissitudini è naturalmente spassoso. Le difficoltà non mancano e Luciana confessa: «Sono stanca. I genitori sono gli esseri viventi che più si stancano. […] Il mio sogno? Settantadue ore di quiete. Non chiedo tanto. Tre giorni. Quelli che ci sono voluti a Gesù per risorgere. Svegliarsi la mattina senza inquietudini e coricarsi la sera senza pena. Velocità di marcia regolare. Invece mi sento come fossi costantemente dentro a una centrifuga. Finita una grana ne arriva un’altra. E poi un’altra e un’altra ancora.»

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