L’accordo politico sulla legge elettorale tra Renzi e Berlusconi c’è stato mettendo al sicuro la riforma e tenendo insieme cose apparentemente impossibili come lo sbarramento al 3%, il premio al partito, i 100 capilista bloccati e soglia del 40% da raggiungere per avere il premio di maggioranza. Intesa cementata, come recita una nota congiunta, dal “rispetto tra forze politiche che si confrontino in modo civile, senza odio di parte”. In realtà Forza Italia non ha detto sì alla soglia del 3 per cento ed al premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione. Idem per la minoranza del Pd, indisponibile a dare il via libera all’accordo. Matteo Renzi, infatti, si presenta davanti alla direzione del Partito democratico quando sono quasi le dieci di sera. Ha in tasca il patto del Nazareno appena rinnovato con Silvio Berlusconi. E davanti a sé difficili passaggi parlamentari, a iniziare da legge elettorale e Jobs act: “Siamo nel momento più delicato della legislatura perché i nodi stanno venendo al pettine tutti insieme”. La minoranza del Pd siede in platea unita e battagliera, pronta a non votare, nel caso in cui il segretario-premier chieda la “ratifica” dell’accordo col Cav. Ma Renzi un voto decide di non chiederlo anche perché, rivendica, si sta muovendo nel solco del mandato ricevuto dal partito. Il parlamentino del partito viene preceduto da un’accesa polemica della minoranza. Civatiani e bersaniani lamentano lo scarso preavviso della convocazione e l’essere stati chiamati a vidimare l’intesa raggiunta da presidente del Consiglio con Berlusconi. Prima della direzione tutte le componenti della minoranza si vedono alla Camera e annunciano battaglia sulla legge elettorale e sul Jobs act. In pratica dico no ad i capilista bloccati e chiedono modifiche sostanziali sul Jobs act. Ed è in questo clima che il premier prende la parola. Per ribadire che la tabella di marcia tracciata deve essere rispettata: Jobs act e legge elettorale al Senato entro l’anno, riforma costituzionale entro gennaio. Sull’Italicum rivendica i passi avanti compiuti. Innanzitutto sui tempi. Renzi spiega poi che nel merito della legge non c’è un accordo su tutti i punti con il Cavaliere. FI ha “perplessità” sul premio alla lista e manca l’intesa anche sulla soglia al 3%. Ma c’è un’intesa politica sul voto al Senato entro l’anno: se ci saranno divergenze e Pd-FI voteranno divisi su singoli punti, prevarrà la linea che raccoglierà più voti, ma poi l’Italicum nel suo complesso sarà portato avanti. Quanto al Jobs act, nel giorno in cui in commissione sono vengono depositati 550 emendamenti, il premier ribadisce di non voler transigere sui tempi. Dunque in commissione alla Camera si pongono due alternative: “Procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche con modifiche da verificare insieme alle forze della coalizione”. Mantenere gli impegni, ribadisce Renzi, è fondamentale per poter andare a rivendicare il proprio ruolo in Europa. Ma vuol dire anche assumersi la responsabilità di cambiare le cose mentre “fuori in tanti cercano di aizzare la piazza rischiando di esserne sommersi”. Parole che, precisa, non si riferiscono al sindacato che merita rispetto anche quando, come la Cgil, indice uno sciopero generale. L’intervento del segretario però non convince affatto la minoranza del partito. Sulla legge elettorale c’è la richiesta di modificare il sistema dei capilista bloccati e ridare, spiega Alfredo D’Attorre, “la parola ai cittadini”. Sul Jobs act la fiducia su una delega in bianco, afferma Stefano Fassina, porrebbe “un problema politico e costituzionale”. Se il testo restasse immutato, anticipa Francesco Boccia, “molti” non lo voterebbero. Senza considerare che l’accelerazione sulla legge elettorale fa sorgere alla minoranza il sospetto, nonostante le rassicurazioni di Renzi, che la tentazione siano le elezioni anticipate. Alla fine non si va alla conta. Renzi rinuncia a mettere ai voti la sua proposta, come aveva auspicato la minoranza, ma va avanti per la sua strada. E difende l’Italicum 2.0 che ha plasmato negli ultimi giorni di incontri con la maggioranza e con Berlusconi: “Questo modello permette a qualcuno di decidere. Senza la decisione non c’è democrazia politica, diventa il bar dello sport e così si perde la credibilità e la stima dei cittadini”.