JOBS ACT

Il premier Matteo Renzi  ritiene  che il problema principale del mercato del lavoro  sia costituito in Italia dalla rigidità dei contratti ed ha presentato il proprio programma di interventi in materia di lavoro, fisco e previdenza denominato Jobs Act.   Una denominazione breve e concisa, moderna e internazionale. Il 12 marzo 2014, infatti,  il consiglio dei ministri ha approvato la prima parte del Jobs Act fissando i  seguenti punti: viene alzata da 12 a 36 mesi la durata dei contratti a tempo determinato  per i quali non è richiesto il requisito della cosiddetta causalità; i contratti a tempo determinato si potranno rinnovare fino a un massimo di otto volte in tre anni, sempre che ci siano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa; non è previsto l’obbligo di pausa tra un contratto e l’altro; i contratti di apprendistato avranno meno vincoli per stimolare l’occupazione attraverso benefici contributivi e retributivi alle imprese;’ prevedere l’abolizione del DURC, documento unico di regolarità contributiva e  documento sugli obblighi legislativi e contrattuali delle aziende nei confronti di Inps, Inail e Cassa Edile, sostituendolo da un modulo da compilare su internet. Questi i punti principali di questo decreto che ci fanno chiedere quale sia la sostanziale differenza tra i contratti a termine e  quelli di apprendistato rispetto alla riforma del lavoro firmata dalla Fornero.  I contratti in realtà divergono per  la durata.  Nel decreto Fornero la durata massima dei contratti a termine era di 12 mesi senza bisogno di indicare la causale, mentre  nel decreto attuale la durata massima è di 36 mesi, sempre senza obbligo di indicare la causale  che determina la fine del contratto. Un altro punto importante di questo decreto è dato dal numero massimo di proroghe del contratto a termine: in questo caso passiamo da un decreto in cui era previsto un solo rinnovo, come previsto dalla Fornero,  ad un decreto che prevede  massimo 8 rinnovi e  senza causale. Per quanto riguarda la pausa tra un contratto e l’altro prima dovevano passare tra i 10 e i 20 giorni a seconda della durata del contratto, ora non occorrono più i giorni di pausa.  L’unico punto in cui si introduce un reale miglioramento è il limite nell’utilizzo dei contratti a termine in un determinato posto di lavoro.  I contratti a termine potranno riguardare  al massimo ad un quinto dei lavoratori facenti parte dell’organico aziendale,  mentre il restante 80% dovranno godere di un contratto a tempo indeterminato. Un altro punto importante è quello dell’apprendistato: la Fornero aveva imposto l’obbligo di assunzione di almeno il 30% degli apprendisti al termine del periodo di formazione, il decreto Poletti elimina questo obbligo. Il  presidente del Consiglio Matteo Renzi in una recente intervista televisiva ha affermato che il suo interesse è quello di aiutare i giovani che non riescono a trovare un lavoro,  e non i sindacati o le associazioni di categoria. Forse non è proprio questo il modo giusto di dare un orizzonte meno incerto ai giovani. Questo perché i giovani saranno  i primi a cui si applicherà una doppia estensione della precarietà, fatta di contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre anni di rinnovi. I giovani saranno quindi i primi  a rischiare di entrare in una porta girevole all’infinito,  che  difficilmente consentirà di maturare diritti a una indennità di disoccupazione tra un rinnovo e l’altro. Per quanto riguarda le donne vi saranno dei costi aggiuntivi con  la possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte e  consentendo  ai datori di lavoro di ignorare  la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non riusciranno a mantenere il diritto alla indennità di maternità piena,  facendo fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, visto  che non  potranno dimostrare di avere un contratto di lavoro almeno annuale.

Fabio Damora

 

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