Il ritiro di Joe Biden dalla campagna elettorale per le elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre lascia il Partito Democratico senza un candidato, a quattro mesi dal voto e in una situazione molto complicata nei sondaggi, mentre il Partito Repubblicano ha appena scelto Donald Trump a una convention che è stata anche uno show di ottimismo e unità.
Il Partito Democratico ha delle regole per questo tipo di circostanze, e specificamente per sostituire un candidato alla presidenza per cause di «morte, rinuncia o grave disabilità». Joe Biden non era ancora formalmente il candidato del partito: quella decisione spetta alla convention, un grande congresso che si riunirà a Chicago dal 19 al 22 agosto. Sarà la convention quindi a scegliere chi candidare al suo posto.
Alla convention partecipano quasi quattromila persone tra funzionari, dirigenti e attivisti del partito, tutti eletti a gennaio con le primarie che avevano visto Biden trionfare praticamente senza avversari. La decisione di Biden di ricandidarsi aveva tenuto alla larga dalla competizione tutti i politici con curriculum e ambizioni tali da giustificare una candidatura alla Casa Bianca. Questi delegati ora saranno liberi di decidere per chi votare. La decisione andrà presa a maggioranza assoluta.
Allo stesso modo, chiunque vorrà candidarsi potrà farlo, anche se non ha partecipato alle primarie. Contestualmente al suo ritiro, Joe Biden ha annunciato di voler sostenere la candidatura alla presidenza della sua vice Kamala Harris, a questo punto sicuramente la favorita: il fatto che faccia parte dell’amministrazione, che fosse già di fatto candidata a queste elezioni seppure con un altro ruolo e che abbia il sostegno di Biden dovrebbe unire la grande maggioranza del partito, desideroso di concentrarsi sugli sforzi per battere Trump.
Inoltre, Harris potrebbe usare facilmente le risorse e infrastrutture già a disposizione del comitato Biden. Ma potrebbe non essere interessata a un’incoronazione, non fosse altro che per ragioni di immagine, e potrebbe essere sfidata anche solo da candidati apertamente di minoranza desiderosi di dare voce e visibilità a una causa o una corrente ben precisa.
Normalmente alle convention si prendono decisioni soprattutto cerimoniali, formali: è innanzitutto un’occasione per il partito e il candidato di presentare progetti e idee al paese. Stavolta invece le decisioni saranno decisioni vere: per esempio anche quella del nuovo candidato alla vicepresidenza. Non è detto che il voto avvenga contestualmente a quello per la nuova persona da candidare alla vicepresidenza, anche se è plausibile che Kamala Harris voglia annunciare il suo vice prima della convention, così da ottenere i consensi di un pezzo più ampio del partito.
I nomi che circolano sulla stampa sono soprattutto quelli di alcuni governatori del Partito Democratico in stati politicamente rilevanti, alcuni molto emergenti: Andy Beshear, 46 anni, governatore del Kentucky eletto e poi rieletto in uno stato molto Repubblicano; Josh Shapiro, 51 anni, governatore della Pennsylvania; Roy Cooper, governatore del North Carolina; Wes Moore, governatore del Maryland; Mark Kelly, senatore dell’Arizona, ex astronauta e marito di Gabrielle Giffords, ex deputata che si salvò miracolosamente dopo che fu colpita alla testa in un attentato nel 2011.
Nella politica statunitense l’identità di candidati ed elettori conta parecchio: salvo Moore, sono tutti uomini bianchi. Harris sarebbe la seconda donna dopo Hillary Clinton a essere candidata alla presidenza per un grande partito; la prima donna nera candidata per un grande partito. Dovesse vincere, sarebbe la prima donna a diventare presidente nella storia degli Stati Uniti d’America.
Negli Stati Uniti il processo elettorale è regolato da molte leggi, anche per quanto riguarda le primarie di partito; il Partito Repubblicano, che nelle ultime settimane aveva chiaramente segnalato di preferire la conferma della candidatura di Biden, potrebbe decidere di far causa ai Democratici in alcuni stati e invalidare la candidatura di chi sostituirà Biden. La maggior parte degli esperti di questioni costituzionali non pensa però che i ricorsi possano andare da qualche parte: i partiti non decidono i candidati fino alle convention e per questo in tutti gli stati americani c’è ancora tempo per presentare i documenti ufficiali per le candidature.
L’ultima volta che un candidato si era ritirato così tardi nella campagna elettorale era il marzo del 1968. Il presidente Lyndon Johnson aveva rinunciato alla rielezione viste le grandi contestazioni causate dalla guerra in Vietnam e le conseguenti divisioni nel partito. I Democratici avevano vissuto una convention molto turbolenta – sempre a Chicago, per coincidenza – caratterizzata anche da proteste e scontri per le strade, finendo per scegliere il vice Hubert Humphrey che poi avrebbe perso contro Richard Nixon.
L’attentato a Trump, il ritiro di Joe Biden e i Democratici che in pochi mesi devono costruire una nuova candidatura e provare a rimontare nei sondaggi, per giocarsela il 5 novembre.
Intanto gli alleati della vicepresidente Kamala Harris hanno portato avanti una campagna sotto traccia per rafforzare la sua immagine pubblica, con un doppio obiettivo: convincere i dirigenti democratici che, nel caso in cui Biden si fosse ritirato, sarebbe stato sensato puntare su di lei per evitare il caos che sarebbe derivato da una competizione agguerrita tra più sfidanti; e assicurarsi il sostegno dei finanziatori del Partito democratico.
Già dopo il dibattito televisivo del 27 giugno, in cui Biden era apparso in grande difficoltà, Harris aveva cominciato a farsi vedere e sentire molto più di quanto avesse fatto nei primi tre anni e mezzo del suo mandato. I repubblicani si erano adeguati, prendendola spesso di mira durante la loro convention di Milwaukee. “Joe Biden oggi, Kamala Harris domani”, recitava uno spot della campagna elettorale di Trump andato in onda subito dopo il dibattito del 27 giugno.
I dubbi su Harris sono noti: ha un indice di popolarità basso, poco sopra quello del presidente; è andata malissimo quando ha provato a candidarsi fuori dal suo stato, la California, nelle primarie presidenziali del Partito democratico del 2020; in quanto donna nera, potrebbe far fatica a conquistare il consenso degli elettori bianchi della classe media e della classe operaia in alcuni stati decisivi, come Michigan, Wisconsin e Pennsylvania.
Un sondaggio recente di YouGov mostra che tre quarti degli elettori democratici vedono Harris al posto di Biden senza molto entusiasmo, soprattutto, gli elettori indipendenti, quelli che non si identificano con nessun partito, non sembrano avere una buona opinione della vicepresidente.
Tra i democratici c’è chi pensa che passare automaticamente il testimone a Harris sia sbagliato, e preferirebbe una vera competizione per scegliere il candidato alla convention di agosto. I sostenitori di Harris pensano invece che abbia ampi margini di crescita. Ricerche condotte da diversi istituti vicini ai democratici hanno rilevato che, anche dopo tre anni e mezzo di mandato, la vicepresidente rimane in gran parte sconosciuta agli elettori. È un problema ma anche un’opportunità, perché con una campagna elettorale energica e ben organizzata Harris potrebbe farsi conoscere e portare verso il Partito democratico elettori scontenti e indecisi, oltre a recuperare consensi tra gli elettori giovani e afroamericani, che rispetto alle elezioni del 2020 sembrano delusi e poco coinvolti. Quale storia, quindi, potrebbe raccontare al popolo americano?
Harris è stata eletta in senato nel 2016, nella stessa tornata elettorale in cui Donald Trump è diventato presidente, e ci è rimasta fino al 2021, quando è entrata in carica come vicepresidente. Ma la sua carriera e le sue scelte politiche sono state interpretate soprattutto sulla base di due incarichi precedenti, come procuratrice di San Francisco tra il 2004 e il 2011 e poi come procuratrice generale della California tra il 2011 e il 2016 (il procuratore generale è il responsabile dell’applicazione della legge in uno stato, ed è eletto dai cittadini ogni quattro anni).
Nel 2020, quando era candidata alle primarie democratiche e nel paese si parlava molto della violenza della polizia, a Harris sono state rinfacciate alcune scelte e posizioni assunte in quel periodo. Alcuni la definirono una “poliziotta”. Da procuratrice distrettuale di San Francisco si era vantata di aver portato in tre anni la percentuale di condanne dal 53 per cento al 67 per cento, il dato più alto del decennio.
In un’eventuale sfida tra Trump e Harris, i repubblicani la accuserebbero di essere una socialista radicale e cercherebbero di scaricare su di lei la colpa della crisi migratoria, il principale tema di cui si è occupata nella prima parte del suo mandato.
Per i democratici la sfida sarà, per dirla con le parole di Dan Pfeiffer, direttore della comunicazione della Casa Bianca durante l’amministrazione Obama, “definire rapidamente il profilo politico di Harris prima che lo facciano i repubblicani”. Significa sottolineare soprattutto le battaglie che Harris ha portato avanti nell’ultima parte del suo mandato di vicepresidente, a favore dei diritti della comunità lgbt+ e soprattutto in difesa dell’aborto.
Harris si trova in una posizione insolita nella storia della politica statunitense. Generalmente i vicepresidenti che non lasciano una traccia durante il loro mandato vengono rapidamente dimenticati. Invece lei potrebbe diventare all’improvviso, appena tre mesi prima delle elezioni, l’ultima speranza di chi è convinto che il voto deciderà il destino degli Stati Uniti.
La grande rinuncia di Joe Biden al bis alla Casa Bianca fa registrare reazioni da parte dei partiti italiani di centrodestra. Tutti concordi nel dire che si tratta della cronaca di “una morte annunciata”.
Per Nicola Procaccini, co-Presidente di Ecr, “Joe Biden è stato buttato a mare dal Partito democratico in virtù dei sondaggi e non mi pare un trattamento dignitoso per un presidente uscente. La scelta di Kamala Harris risulta ancora più negativa per quanto non ha fatto sul tema dell’immigrazione e della sicurezza. I democratici hanno demonizzato Trump, hanno prima sostenuto Biden per poi scaricarlo all’ultimo minuto. Kamala Harris farà la fine di Hilary Clinton a novembre e noi come Ecr sosterremo tra gli italiani d’America, Donald Trump”.
La sinistra italiana è da sempre abituata a perdere in casa e a cercare miracolosamente di aggrapparsi a vittorie estere. E’ successo in Francia, in Gran Bretagna, accadrebbe anche in Lussemburgo o a San Marino, figuriamoci negli Stati Uniti, il Paese più importante del mondo. La rinuncia di Joe Biden e l’investitura di Kamala Harris hanno scatenato entusiasmi di parlamentari e opinionisti d’area, peraltro convinti di poter incidere anche sulle scelte che faranno gli americani.
La reazione del Partito Democratico alla scelta di Biden è tutta nelle parole del capogruppo al Senato, Francesco Boccia, e del responsabile degli esteri, Giuseppe Provenzano. Per entrambi, che elogiano Joe Biden per il coraggio, “la partita è riaperta”. Boccia riesuma addirittura la vicenda di Capitol Hill, affermando che, “chiunque tenga alla democrazia non può dimenticare quanto accadde”. Provenzano indica in Kamala Harris, che ancora non è stata nemmeno designata, la protagonista di” una partita che si riapre”.
Il 2016 con Matteo Renzi a Palazzo Chigi, il Pd di allora organizzò una serie di pellegrinaggi negli Usa, con tanto di etichette in mostra, per sostenere Hilary Clinton. Incontri con le comunità italiane, discorsi, tweet. Il risultato fu tremendo: sconfitta per l’ex first lady e dimissioni per il leader fiorentino con decisione, poi rinnegata, di abbandonare per sempre la politica.
Con la decisione di Joe Biden di rinunciare alla rielezione e l’endorsement dato a Kamala Harris, la vice presidente democratica è di fatto la front runner a diventare la nuova candidata alla Casa Bianca. Altri democratici potranno contendersi con Harris il voto dei delegati. Bisogna comunque ricordare che i delegati non solo sono stati eletti in quota Biden ma sono stati anche selezionati dalla sua campagna. Quindi per avere una maggioranza di delegati che scelga un candidato diverso da Harris ci dovrebbe essere un massiccio numero di defezioni da parte dei supporter di Biden. In teoria comunque secondo le regole del partito democratico i delegati eletti per Biden non hanno nessun obbligo di appoggiare il successore da lui indicato.