La guerra va ben oltre l’Ucraina e il nemico non è solo la Russia…

Come sottolineato dall’analista geopolitico Mirko Mussetti su Limes, la Russia cerca di trasformare una sconfitta tattica in un vantaggio strategico, puntando alla nevralgica città di Pokrovsk nel Donetsk. La bilancia della guerra dunque non cambia, anzi torna a pendere prepotentemente dal lato di Mosca, che intanto ha anche fortificato il saliente di Kursk e che ha tutto l’interesse a prolungare il conflitto. La più grande invasione del territorio russo dalla Seconda Guerra Mondiale non risulterà quindi così decisiva sul piano pratico, a differenza di quanto ha prodotto invece sul piano simbolico per il danno d’immagine nei confronti di Vladimir Putin e del Cremlino.

L’obiettivo della Russia all’inizio dell’invasione, nel febbraio 2022, era quella di arrivare a Kiev e far cadere politicamente l’Ucraina in modo rapido e deciso. L’esigenza strategica di Kiev era invece quella di resistere abbastanza a lungo da esaurire la volontà russa di combattere. Nessuna delle due ha avuto successo e la guerra ha superato ormai i due anni e mezzo. Gli annunci che il conflitto sarebbe presto finito si sono rivelati un problema più per la Federazione che per l’Ucraina, poiché la sua reputazione di avere un esercito di gran lunga superiore è stata spazzata via.

Nel frattempo, il Paese invaso deve ricostruire un’economia che non solo sostenga se stessa, ma la livelli in qualche modo anche al limite minimo richiesto dal resto dell’Europa, il tutto generando rapidamente rifornimenti militari che possano scoraggiare ulteriori azioni russe. Senza dimenticare che non tutti gli aiuti occidentali sono gratis per l’Ucraina, che è tecnicamente un Paese fallito. Il compito della Russia è un po’ diverso. Ha invaso l’Ucraina per ottenere una profondità strategica difensiva dalla Nato, come ha sempre fatto nel corso della sua storia nelle varie declinazioni dell’impero (Granducato di Mosca, zarismo, Unione Sovietica, Federazione). Non essendo riuscita a occupare il Paese, Mosca non ha potuto però cambiare il suo imperativo di sopravvivenza di difendersi lontano dal cuore della nazione. Da qui la volontà inalienabile del Cremlino di saldare a sé altre zone cuscinetto, esercitando pressione e influenza su Caucaso, Paesi baltici, Polonia, Ungheria e Balcani.

La Russia deve necessariamente dominare il Caucaso dall’alto, mantenendolo stabile per evitare la penetrazione della Nato, cioè degli Stati Uniti. E qui entra in gioco l’Iran, che è legato per religione e cultura all’Azerbaigian, una nazione caucasica che rappresenta una potenziale minaccia per la Russia se sostenuta da un’altra potenza. L’Azerbaigian ha fatto da cuscinetto tra Russia e Iran e al momento è alleato di Mosca. Dominare il Caucaso è ardua impresa da secoli per Mosca, ma la sorte ha offerto al Cremlino un’opportunità con l’acuirsi della crisi in Medio Oriente. Al netto delle inutili psicosi, persiste una minaccia credibile di guerra aperta tra Iran e Mezzaluna sciita da una parte e Israele e gli Stati Uniti dall’altra. Washington è sponsor di Israele, ma al pari di Teheran non vuole in alcun modo un conflitto totale. Al contrario di Mosca, che invece vorrebbe un conflitto di questo tipo, che intrappolerebbe gli Stati Uniti molto più a sud dai confini russi. Russia e Iran hanno lo stesso nemico negli Usa e una rete di nazioni cooperanti , a partire dall’ambigua Cina. Non sono amici, anzi, ma uniti momentaneamente contro l’egemone globale sono una forza temibile.

Allo stato attuale, Mosca invia armi all’Iran mentre Israele si prepara per una grande offensiva  alla quale gli Usa si oppongono fermamente. Questa faglia è un altro regalo ai russi, poiché indebolisce la relazione tra Washington e Tel Aviv, unico grande argine agli interessi del Cremlino in Medio Oriente. Da parte sua, Teheran è diffidente nei confronti di una relazione strutturata con Mosca, ma in caso di guerra aperta tale legame si cementerebbe di sicuro. Questo è il legame geopolitico tra la guerra in Ucraina e quella mediorientale. Gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi a combattere una guerra contro l’Iran nel peggior momento possibile. Ma il dominio di Mosca sul Caucaso e l’Iran come ‘alleato’ compenserebbero il sostanziale insuccesso in Ucraina. Ciò renderebbe la Russia una potenza in Medio Oriente e metterebbe gli Usa nella posizione di abbandonare il campo di battaglia, apparendo sconfitti,  o di entrare in una guerra brutale e pericolosa. Tutto questo potrebbe ovviamente non verificarsi. Ma attualmente Israele fa sempre più fatica a trattenersi, gli Usa navigano a vista aspettando le presidenziali di novembre, la Russia ha bisogno di una vittoria dentro o fuori l’Ucraina e l’Iran vuole risorgere come grande impero.

Il deflagrare del fronte mediorientale potrebbe cambiare le sorti anche di quello più a nord, convincendo del tutto gli Usa a chiudere i conti con la questione russo-ucraina. In tal caso, i negoziati sarebbero organizzati rapidamente, con Mosca che avrà in mano un ulteriore vantaggio legato alla sua arma più efficace finora: il tempo.

Le sorti del conflitto in corso sono in tutto e per tutto nelle mani degli Stati Uniti. Gli apparati americani sono divisi sul da farsi, sballottati dal vortice della partita elettorale tra Kamala Harris e Donald Trump per la presidenza. Quando però a maggio il Congresso ha sbloccato nuovi aiuti all’Ucraina per circa 61 miliardi di dollari, a Washington si è tornati a parlare di vittoria ucraina. Figurarsi dopo l’invasione ucraina di una porzione di territorio russo.

Al di là dell’obbligo strategico di voler incatenare Mosca in un conflitto per procura, gli Usa hanno sicuramente mostrato un’inversione di tendenza sconvolgente. Negli ultimi mesi, la Casa Bianca e i vertici dell’amministrazione federale hanno lanciato terribili avvertimenti sul fatto che, se non fossero stati aiutati, le linee ucraine sarebbero crollate e le truppe russe avrebbero potuto di nuovo attaccare Kiev. Ma con il peggio scongiurato, la posta in gioco si è idealmente alzata. L’amministrazione Biden sta ora lavorando per sostenere le Forze armate di Kiev da qui ai prossimi dieci anni, per una spesa stimata in centinaia di miliardi di dollari. Mentre il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha suggerito che l’Ucraina avrebbe lanciato un’altra controffensiva nel 2025. A ulteriore dimostrazione che il conflitto non terminerà quest’anno.

I Paesi europei, dal canto loro, potrebbero pagare lo scotto dell’impossibilità e della chimera di una difesa comune. Uno degli scenari possibili è il consolidamento di un gruppo di Stati, già di fatto esistente, uniti dall’avversione esistenziale alla Russia. Stiamo parlando del blocco baltico-polacco, serrato alla Finlandia fresca di adesione alla Nato. Gli Usa hanno costruito e mantenuto necessaria l’Alleanza Atlantica proprio sulla minaccia russa, facendone un punto fermo in tutte le operazioni di allargamento a Est, compresa la corte a nazioni fondamentali per il Cremlino come la Georgia e la Moldavia.

L’Unione europea, braccio politico-economico degli Usa nel Vecchio Continente, deve decidere se continuare a supportare militarmente l’Ucraina nel caso in cui l’assistenza degli Stati Uniti dovesse cessare. Non per improvviso ritiro americano, ma per preciso calcolo di lasciare il contenimento della Russia ai satelliti europei. In tal caso, i motori industriali dovranno iniziare fin da subito a lavorare su tre turni nelle fabbriche di munizioni. Ad esempio la Thales di Belfast, che produce l’efficace missile anticarro svedese Nlaw, dovrebbe lavorare 24 ore su 24, 7 giorni su 7. I proiettili di artiglieria da 155 mm dovranno essere sfornati in grandi quantità in tutta Europa. Questo livello di sforzo richiederebbe un ingente budget di emergenza e avrebbe inevitabilmente un impatto sulla spesa interna per programmi sociali, finora intoccabili, dei singoli Stati. L’Europa deve insomma capire ora se può replicare la catena logistica degli Stati Uniti che è stata così efficace nel far arrivare le munizioni all’Ucraina orientale.

La questione industriale militare non è però l’unico dossier urgente sul tavolo della Commissione Ue. Sono almeno tre le questioni che necessitano di una soluzione rapida. Bruxelles sequestrerà i 300 miliardi di sterline di asset russi in Occidente o no? Colmerà le enormi scappatoie nell’acquisto di prodotti energetici russi sul mercato secondario? Avrà il coraggio di sospendere tutti i visti russi per l’Europa? E, soprattutto, è davvero intenzionata a proseguire con l’adesione dell’Ucraina all’Ue? Difficile, perché il Paese è tecnicamente fallito e con grossi buchi di democrazia e corruzione. Chiaramente l’Ucraina non può entrare neanche nella Nato mentre i combattimenti sono ancora in corso, ma la promessa di adesione dovrà esserci immediatamente dopo la fine della guerra. Al netto delle perduranti obiezioni del primo ministro ungherese Viktor Orban e del presidente turco Recep Tayyp Erdogan.

In seno all’Occidente c’è però anche chi sostiene l’ipotesi della sconfitta ucraina nel 2024. Di solito dichiarazioni del genere tradiscono motivazioni propagandistiche, legate a questioni interne al blocco come, ad esempio, mostrarsi indispensabili agli egemoni americani oppure candidarsi a guida di un’Europa sempre più divisa e in prima linea nell’opposizione alla Russia. È il caso del Regno Unito, nonostante la Brexit. Secondo l’ex comandante del Joint Forces Command britannico Richard Barrons, l’Ucraina rischia fortemente di essere sconfitta dalla Russia entro quest’anno.

Prima o poi l’entusiasmo e il messaggio di forza legati all’incursione di Kursk si indeboliranno, lasciando Kiev in balia del rinnovato risentimento russo. Dopo l’umiliazione subita sul suolo nazionale, Mosca lancerà infatti una grande offensiva, puntando innanzitutto a chiudere la conquista militare del Donetsk. In territorio ucraino il vantaggio medio degli invasori è di cinque a uno in termini di artiglieria, munizioni e soldati. In alcuni punti del fronte è quasi il doppio.

Allungare così tanto la linea del fronte, rendendo impossibile i rifornimenti logistici e la rotazione delle unità, può essere letale per l’Ucraina. Di fronte hanno una potenza demografica e industriale che potrà fare come ha fatto Kiev a Kursk: approfittare dei salienti più scoperti e deboli e lanciare un grande attacco. In un qualunque punto della linea di contatto e in qualunque momento. Secondo Jack Watling, ricercatore senior presso il think tank Whitehall Royal United Services Institute, la difesa ucraina è destinata a perdere terreno. Nell’oblast di Kharkiv, ad esempio, dove il Cremlino aveva già aperto un fronte qualche mese fa. Seconda città più grande dell’intero Paese invaso, Kharkiv è situata pericolosamente vicina al confine russo. L’Ucraina non è in grado di mettere in campo difese aeree sufficienti per respingere il mix letale di droni, missili cruise e balistici che il nemico continua a lanciare quotidianamente. Per ora ancora in quantità non letali. La stessa tattica potrebbe far cadere in pochissimo tempo anche Zaporizhzhia, garantendo al Cremlino un decisivo vantaggio emotivo più che territoriale.

Il momentaneo vantaggio di Kiev è che Mosca non ritiene ancora conveniente chiudere i conti bellici con un’offensiva totale. Il prolungamento del conflitto le sta bene, perché la guerra di logoramento avvantaggia chi ha più uomini e risorse. Per questo motivo Volodymyr Zelensky cerca di utilizzare il fresco successo di Kursk per convincere Usa e Stati Ue a inviare nuove armi a lungo raggio e a rimuovere il divieto di utilizzarle in territorio russo. “Ora possiamo vincere, vi abbiamo dimostrato che la Russia si può battere”. La scala di forze è però ben diversa, come abbiamo visto.

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