La pandemia toglie il velo alla crisi nascosta

Molti, in questi giorni, affermano che il modello della società capitalistica sia sotto il più grande test della sua storia. In realtà, credo, le cose sono molto più drammatiche e serie. La pandemia rischia di essere il più grande paravento ad una crisi strutturale, ad una vera e propria implosione che il sistema di produzione e di vita dell’Occidente hanno imposto all’intero pianeta. Non è qui il tempo e il luogo per analizzare questa implosione, anche se la sinistra politica che si è affacciata a questo secolo, dovrà fare i conti con la miopia che l’ha contraddistinta negli ultimi trent’anni. Un’incapacità a mettere a fuoco il passaggio storico che l’ha divisa in due grandi tronconi: quello maggioritario, convinto che fosse possibile “governare” il processo della globalizzazione fino a divenirne l’interprete massimo (sul piano politico, ovviamente, il vero potere era ben altrove e i governi, quasi sempre, erano dei veri propri “spettri” della loro funzione); quello minoritario, convinto che tale deriva fosse foriera di ulteriori squilibri e ingiustizie (cosa per altro vera nei paesi occidentali, ma non in assoluto nel mondo) e che fosse necessario “ripristinare” lo stato ex-ante (come se quel mondo non fosse fatto di sfruttamento del lavoro salariato e non poggiasse sul furto colossale nei confronti dei restanti popoli, dell’ambiente e dei suoi equilibri, del futuro, come possibile sostenibilità del modello di quel livello dei consumi.

La crisi drammatica della pandemia, quindi, è stato l’assist più favorevole per portare alla luce la crisi sottostante, facendo ricadere la colpa della devastante recessione che è stata innescata, ai meccanismi scelti dai governi per proteggere la popolazione dal picco delle infezioni. La crisi sarebbe arrivata ugualmente e avrebbe svelato l’impossibile sostenibilità del meccanismo di produzione che abbiamo avuto fino a gennaio.

Ci sarebbe molto da dire sul possibile svelamento della rottura sistemica in atto, sul ruolo dei meccanismi finanziari che sostengono il processo e sull’insensata rincorsa all’aumento generalizzato (a livello globale) del livello dei consumi, sull’aumento delle diseguaglianze sociali che questo modello porta con se, sull’antropomorfizzazione del globo, della drammatica riduzione della biodiversità, dell’estinzione di massa della vita sul pianeta, sulla rottura degli equilibri sistemici del clima.

La cosa su cui mi preme dire qualcosa, però, è cosa fare, cosa proporre, verso quale esito vorremmo andasse questa crisi. Einstein affermava che “la crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi e la creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura”.Certo, occorre piegare il capo davanti ai morti di questa pandemia e alle sofferenze che si innescheranno con la crisi economica. Ma dobbiamo avere la consapevolezza che queste seconde, sarebbero arrivate in ogni modo, forse più localizzate e con tempi diversi, forse, però, addirittura più acute e con squilibri tra paesi in grado provocare tensioni internazionali ancora più rilevanti e pericolose di quello che sta avvenendo ora.

Il primo grande distinguo è sulla scelta diciamo “macro”: crediamo sia possibile “ripristinare” il modello che abbiamo alle spalle o pensiamo sia necessario andare verso un modello economico-sociale radicalmente diverso? Lavoriamo per un aggiustamento del “qui ed ora” o pensiamo ad un utilizzo delle risorse, che saranno messe in campo, per generare un capitolo nuovo della storia?

Questa è il primo discrimine. Credere che sia possibile ripristinare un funzionamento del sistema produttivo schiavo dei meccanismi finanziari e del ricatto del debito rappresenta una follia. Ci sono molte forze, molte burocrazie amministrative, sociali e politiche, nazionali e internazionali, che si illudono che con qualche escamotage, con qualche invenzione di tecnica finanziaria, con qualche elettroshock monetario, il sistema possa riprendere a funzionare. Queste forze illudono loro stesse, illudono i cittadini e preparano una crisi ancor più devastante. Esattamente come è accaduto nel 2008 quando, di fronte all’implosione finanziaria e poi economica, l’establishment mondiale ha continuato imperterrito a giocare la stessa partita preparando le basi per il crollo sistemico.

Serve una altra strada e servono provvedimenti che spingano verso un altro esito.

In primo luogo non basta il dibattito sugli strumenti finanziari, ma servono scelte di politica industriale. Occorre indirizzare il sistema verso nuovi equilibri e servono, ora, le scelte di quadro, le opzioni sistemiche che sappiano traguardare il nuovo cammino. Non basta dire che si vuole andare “oltre” la crisi, serve indicare verso quale nuova modalità di produrre vogliamo andare, come costruire forme nuove di produzione del soddisfacimento dei bisogni, che punti sulla capacità resiliente delle comunità e sappia renderle più forti da un aumento della connessione globale di queste comunità umane. Serve un grande progetto, forte e capace di far uscire dal tunnel il mondo del lavoro e quello produttivo, ma attraverso la realizzazione di politiche di autosufficienza consapevole e di maggior integrazione e scambio, in primo luogo degli elementi immateriali come la conoscenza e l’informazione, motori primi della economia di questo secolo.

Servono provvedimenti che accompagnino le tre fasi che necessitano ora nell’economia. Serve, immediatamente, una nuova legge sul fallimento. Non possiamo far travolgere una intera generazione da un quadro di responsabilità che non poggiano sulle loro spalle. È urgente tanto quanto quella del sostegno. Bisogna mettere le persone in grado di ripartire senza il fardello di ciò che è avvenuto in questo 2020. Servono linee di credito immediate per non far chiudere le aziende, ma servono indirizzi di trasformazione delle tipologie di mercato e produttive. Servirebbe una legislazione che ponesse, finalmente, le basi per una democrazia nei luoghi di lavoro, non solo in termini di capacità rivendicativa, e una spinta verso un nuovo modello di lavoro cooperativistico. Servirebbe iniziare a produrre forme di condivisione del lavoro, basate sulla potenza delle tecnologie digitali, che mettano in condizione le aziende di avere flessibilità nell’approvvigionarsi di funzioni gestionali e conoscenze e, dall’altro, offrire tutele e certezze maggiori rispetto a forme di lavoro recluso all’interno delle pareti domestiche. Servono le risorse per far partire nuove aziende, attività di nuovo tipo, basate sulla potenza del digitale e serve di mettere in salvaguardia le start-up che ancora non sono riuscite a decollare. La perdita di questa ricchezza, che non è solo economica o generazionale, rappresenterebbe un vero piombo per le ali.

Serve, quindi, una scelta che vada oltre le forme del dibattito odierno, tutto condizionato dalla egemonia della cultura monetarista e finanziaria. Serve un progetto per le nostre società di questo millennio, che saranno quelle che sperimenteranno la fuoriuscita dal modello capitalistico di vita. Senza un progetto, tale passaggio storico potrebbe addirittura risultare ancor più drammatico di quanto possiamo, ad oggi, immaginare.

Sergio Bellucci

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