La Sea Watch ha svelato il suo volto autentico dichiarando all’Europa il suo scopo principale che è quello di destabilizzare il nostro Paese e cercare, con ogni mezzo, di far cadere il governo di centrodestra teorizzando l’arrivo di migranti provenienti da tutta l’Africa in Italia: ‘Stiamo inviando una nave contro le politiche migratorie di estrema destra dell’Italia, contro gli attacchi all’asilo e ai diritti umani da parte dell’Unione Europea e contro i tentativi di criminalizzazione da parte del governo tedesco. Ma soprattutto la Sea-Watch 5 difenderà il diritto alla vita’. L’annuncio assomiglia in modo incredibile ad un manifesto politico. Una sorta di sfida. Un proclama indirizzato contro l’esecutivo Meloni, ma anche visibilmente ostile a Bruxelles e al governo teutonico. Due istituzioni che, dopo anni di lassismo, hanno capito come le coste della Sicilia e della Calabria, della Puglia e della Sardegna non disegnino esclusivamente i confini italiani, ma anche quelli europei.
La Sea Watch 5, in grado di ospitare a bordo oltre cinquecento persone, oltre all’equipaggio. Una mastodontica caravella, partita da Vinaros, in Spagna, per la sua prima missione: ‘Mentre l’Unione Europea ignora il dramma delle morti in mare, mentre gli stati europei lanciano attacchi frontali all’asilo e ai diritti umani, la Sea-Watch 5 prende il largo con il suo equipaggio di 29 persone, con una struttura, ambienti e strumentazione all’avanguardia per soccorrere chiunque ne abbia bisogno. Nonostante le politiche razziste, nonostante gli attacchi e la criminalizzazione’.
La principale ong tedesca si è dichiarata per quello che, in realtà, è sempre stata: il braccio armato della sinistra immigrazionista.
Se andiamo avanti scopriamo che ci sono multinazionali che gestiscono i centri migranti e realizzano profitti sulla detenzione dei richiedenti asilo. È quello che avviene in sei dei dieci Cpr attivi in Italia, dove centinaia di persone straniere sono private della libertà per un’infrazione amministrativa, ovvero senza aver commesso reati. Per un giro d’affari di 53 milioni di euro tra il 2018 e il 2021. La privatizzazione della detenzione è uno dei fenomeni che emerge dal report Trattenuti, pubblicato dall’ong Actionaid dopo un anno e mezzo di studi e ricerche in collaborazione con il dipartimento di Scienza politiche dell’università di Bari.
Parliamo di sei dei dieci Cpr attivi in Italia, dove la detenzione si confonde con l’accoglienza, con gravi conseguenze sui richiedenti asilo, che sono privati della libertà anche per un’infrazione amministrativa, ovvero senza aver commesso reati. Per un giro d’affari di 53 milioni di euro tra il 2018 e il 2021. La privatizzazione della detenzione è uno dei fenomeni che emerge dal report citato. Cpr sta per Centri di permanenza per i rimpatri. Prima si chiamavano Centri di identificazione ed espulsione (Cie) e prima ancora Centri di permanenza temporanea (Cpt). Nascono nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano. Da allora sono cambiati gli enti gestori. Fino al 2006/7 se ne occupava la Croce Rossa, dal 2008 iniziano a vincere le gare delle cooperative, attraverso offerte economicamente più vantaggiose. Dal 2014 nel mercato entrano grandi multinazionali europee ma il fenomeno si intensifica a partire dal 2018. Appare evidente che l’affidamento a privati della gestione di centri di detenzione sia concretamente rischioso perché si antepone il profitto al rispetto dei diritti: per loro stessa natura le aziende devono generare utili, e non possono che farlo a detrimento del rispetto della dignità delle persone recluse – spiega Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid -. E anche quando a gestire il Cpr è un’impresa sociale questo ha un effetto ‘normalizzante’ che rende accettabili agli occhi dell’opinione pubblica dei non-luoghi difficilmente compatibili con il nostro ordinamento democratico e che coincide con una sempre maggiore deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione.
Appare evidente che l’affidamento a privati della gestione di centri di detenzione sia concretamente rischioso perché si antepone il profitto al rispetto dei diritti: per loro stessa natura le aziende devono generare utili, e non possono che farlo a detrimento del rispetto della dignità delle persone recluse – spiega Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid. Negli ultimi anni si è verificata un’ibridazione del sistema di accoglienza con quello di detenzione. Le due funzioni si sono fuse progressivamente. Il decreto Cutro del governo Meloni esaspera quanto stabilito dal decreto sicurezza del 2018, e oltre a tagliare nuovamente i servizi per l’accoglienza, prevede che tutti i richiedenti asilo provenienti da paesi considerati sicuri vengano detenuti direttamente all’arrivo. Questo ha portato a un grande caos amministrativo: sono sorti locali di detenzione all’interno dei centri di prima accoglienza, confondendo funzioni diverse. Inoltre in molti casi il ministero dell’Interno non ha modo di distinguere le spese di accoglienza da quelle di detenzione, dal momento che spesso sono gli stessi enti a gestire questi due tipi di strutture, negli stessi centri polivalenti, e le spese vengono catalogate con lo stesso codice di bilancio. Come conseguenza del taglio dei servizi (e quindi dei fondi) le prefetture incontrano grandi difficoltà a trovare enti per la gestione dei Cpr, dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) e dei Cpa (Centri di prima accoglienza). Per esempio, si registrano gare deserte presso la prefettura di Prato, Genova, Pordenone, e Lecco. Le cooperative e le associazioni del terzo settore che si occupano di rifugiati e diritti umani hanno smesso di partecipare alle gare perché i fondi a disposizione sono insufficienti per garantire servizi adeguati. A ottenere gli appalti sono le grandi multinazionali della detenzione, proponendo importanti ribassi sui prezzi con il rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali dei trattenuti. Per fare degli esempi concreti: oggi nei Cpr ogni persona detenuta ha diritto a 9 minuti a settimana di informativa legale, 9 di supporto psicologico, 9 di assistenza sociale e 28 di mediazione culturale. ‘Questo significa che le persone private della libertà perché hanno violato una norma amministrativa, non possono far valere un diritto di difesa, e in molti casi non capiscono nemmeno perché sono li, in condizione di cattività’, aggiunge Coresi. Un altro fenomeno problematico è quello delle proroghe: se non ci sono soggetti disposti a gestire i Cpr, le prefetture si vedono costrette a prorogare gli appalti già in atto, nonostante alcuni enti gestori abbiano avuto grandi problemi con la giustizia.
I Cpr di Ponte Galeria a Roma e Torino sono gestiti dalla società Ors (Organisation for Refugees Service), che fino al 2022 gestiva anche quello di Macomer (provincia di Nuoro). Ors gestisce cento strutture sparse tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Secondo un’inchiesta di Irpi i centri gestiti dalla multinazionale, e dalle diverse filiali, sono stati nel tempo oggetto di inchieste e di accuse di mala gestione. Un rapporto di Amnesty International ha denunciato nel 2015 le condizioni inumane in cui le persone migranti erano costrette a vivere nel centro di Traiskirchen, in Austria. La struttura, progettata per 1.800 persone, era arrivata a ospitarne 4.600. In questo modo Ors, secondo l’ong, puntava a ‘un taglio dei costi e alla massimizzazione del profitto con ‘risparmi’ su visite sanitarie, corsi di formazione, cibo e qualità degli alloggi’. Nel 2020 l’aggiudicazione di un centro d’accoglienza nella provincia di Trieste è stata annullata dal Tar del Friuli Venezia-Giulia perché l’organizzazione risultava inattiva da due anni. Nonostante la condanna, Ors continua a i gestire 2 Cpr più grandi d’Italia. Un altro gruppo di rilievo è rappresentato da Ecofficina-Edeco-Ekene, vari nomi per realtà strettamente imparentate. La prima è stata espulsa nel 2016 da Confcooperative del Veneto a causa del modello di gestione adottato nel controverso grande centro di accoglienza di Cona (Provincia di Venezia), che è finito sotto indagine. Nel 2019, il terzo ente ha vinto l’appalto per la gestione del Cpr di Gradisca (provincia di Gorizia), dove tra gennaio 2020 e agosto 2022 si sono registrati quattro morti, un record allarmante. Altre realtà coinvolte nella gestione dei centri di detenzione sono la Engel-Martinina, un’organizzazione proveniente dal settore turistico-alberghiero che si è cimentata nel campo della detenzione dei migranti nei Cpr di Palazzo San Gervasio (provincia di Potenza) e Milano, e la multinazionale francese Gepsa, il cui ambito operativo spazia dalla fornitura energetica alla detenzione amministrativa.
È su questo sistema che il governo Meloni decide di puntare, avendo annunciato l’intenzione di raddoppiare il numero di Cpr, arrivando a uno per regione. I Cpr sono luoghi chiusi, dove la società civile non ha accesso e dove anche per i giornalisti e le associazioni che si occupano di tutela dei diritti è estremamente difficile entrare. Quello che si sa è però che il tasso di suicidi, gli episodi di autolesionismo, l’abuso di psicofarmaci e sostanze e le rivolte si verificano con una frequenza allarmante, tanto che una parte importante dei costi di gestione riguardano la manutenzione straordinaria in seguito ai danneggiamenti causati dalle rivolte. Le ong che si occupano di diritti umani sottolineano che la detenzione, come vuole la legge, dovrebbe essere l’estrema ratio, non la soluzione ordinaria.
La retorica della continua emergenza rende possibile questa deroga dell’ordinario allo straordinario, le persone migranti vengono considerate alla stregua di vite di scarto, ‘carico residuale’, minacce per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, conclude Fabrizio Coresi.