L’Inps ieri ha spiegato, numeri alla mano, che l’accensione di nuovi contratti a tempo indeterminato (e tutele crescenti) rispetto allo scorso anno è crollata del 32 per cento; contemporaneamente, i licenziamenti individuali (come da timori legati alla cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto) sono aumentati del 31 per cento; mentre i voucher rappresentano sempre di più la nuova frontiera del precariato che si voleva aggredire con il presunto sfoltimento della giungla contrattuale. Nei comportamenti e nelle opzioni dei nostri imprenditori vi sono tre costanti che intrecciano un vero e proprio filo rosso della loro storia. La prima: una certa tendenza a considerare la compressione dei salari come l’unico strumento possibile nel governo del costo del lavoro; la seconda: l’idea che la competitività debba essere affidata più che alla ricerca e all’innovazione, alla svalutazione monetaria; la terza: una inossidabile propensione all’infedeltà fiscale, come raccontato anche da recenti vicende giudiziarie e da inchieste giornalistiche nazionali e internazionali. La Confindustria è stata sempre graniticamente contraria all’introduzione dell’euro. E non è certo casuale che la competitività del sistema industriale italiano, a causa della sua debolezza sul fronte della ricerca, dell’innovazione e dello sviluppo, accentuata dalle sue dimensioni che tendono più al medio-piccolo che al grande, a partire dalla sostituzione della lira con la moneta unica si è ridotta notevolmente aggravando problemi che erano già emersi in passato. I dati resi pubblici dall’Inps dimostrano come gli imprenditori siano in buona parte lontani da quell’immagine di classe dirigente che rivendicano per sé. È evidente che non è stato certo il Jobs Act, e le tutele crescenti, a favorire l’aumento dei contratti a tempo indeterminato nel 2015 ma la decontribuzione, cioè i benefici economici con la conseguenza che quando sono venuti in buona parte meno, la spinta si è esaurita. Le assunzioni di datori di lavoro privati, nel periodo gennaio-agosto 2016 sono risultate 3.782.000, con una riduzione di 351.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-8,5%). Nel complesso delle assunzioni sono comprese anche le assunzioni stagionali (447.000). E’ quanto informa l’osservatorio sul precariato dell’Inps secondo cui il rallentamento delle assunzioni ha riguardato principalmente i contratti a tempo indeterminato: -395.000, pari a -32,9% rispetto ai primi otto mesi del 2015. Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la contrazione del flusso di trasformazioni a tempo indeterminato (-35,4%). Nei primi otto mesi del 2016, secondo l’Inps, sono stati stipulati 330.262 contratti a tempo indeterminato con gli sgravi contributivi previsti dalla legge di stabilita’ (il 40% dei contributi). Si tratta del 32,8% dei contratti rispetto al totale delle assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato. I dati Inps confermano che il mercato del lavoro non è ripartito e la crescita che si è registrata lo scorso anno è stata drogata dalla decontribuzione a termine. In pratica ogni nuovo occupato è costato al Paese 60.000 euro all’anno. In conclusione, il Jobs act si dimostra una riforma modestissima. Nei primi otto mesi del 2016 abbiamo avuto 350 mila nuovi contratti in meno dello scorso anno, a dimostrazione che la stretta sui contratti del governo e il tentativo di spingere le imprese verso il contratto a tempo indeterminato è stato un boomerang. I licenziamenti aumentano e non si vede l’ombra di moderne politiche attive. Per far ripartire l’occupazione bisogna generare crescita economica e abbassare strutturalmente il costo del lavoro, che invece è ancora troppo elevato, come testimonia il massiccio ricorso ai voucher.
Cocis