Lavoro minorile e abbandono scolastico

Solo un terzo dei genitori farebbe di tutto perchè il proprio figlio non abbandoni la scuola prima di 16 anni e vada a lavorare. E più della metà, il 54%, ritiene che la crisi economica possa giustificare almeno in parte l’abbandono scolastico per trovare un impiego, mentre poco meno, il 46%, pensa che nel lavoro minorile non ci sia nulla di male o comunque esistano situazioni che possano giustificarlo. Sono alcuni tra i preoccupanti risultati di un’indagine dell’Osservatorio nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza (Paidòss). Preoccupanti tanto più quando si consideri la normalità percepita di limitare l’iter formativo-culturale di un adolescente a favore di un percorso lavorativo-economico. Chissà, forse è anche per questo che nel nostro Paese la ricerca scientifica continua a essere la “Cenerentola” degli investimenti pubblici e privati: ricerca vuol dire anche studio, praticamente senza fine, e non è affatto detto che porti chissà quali ritorni economici. Terribile, in prospettiva, se si pensa che la ricerca scientifica potrebbe, anzi dovrebbe essere uno dei fattori di sviluppo economico sui quali un Paese povero di materie prime e di territorio come l’Italia dovrebbe puntare. Probabilmente, a ben pensarci, una delle ragioni per le quali siamo tra i Paesi occidentali con il più alto tasso di disoccupazione giovanile è proprio questo: l’insufficiente importanza che, mediamente, diamo allo studio e alla conseguente carenza di sviluppo economico e relativa creazione di posti di lavoro. Secondo lo studio Paidòss, più di un genitore italiano su due crede che il lavoro minorile sia un fenomeno reale solo nei Paesi sottosviluppati e uno su tre lo considera un problema che da noi riguardi solo gli immigrati. Fatto sta, invece, che secondo Save The Children in Italia ci sono ben 260 mila minori sfruttati a fini economici. Non per nulla il 17% dei genitori sa di ragazzini che lavorano, figli di amici e parenti o compagni di scuola dei propri figli; una percentuale che arriva fino al 22-24% al Nord dove il lavoro infantile risulta più diffuso del previsto. Anche se quest’ultimo dato non dovrebbe stupire più di tanto: la dispersione scolastica è fenomeno che spesso interessa le aree dove più facilmente è possibile trovare un lavoro, guadagnare, spendere senza dover chiedere soldi ai genitori, rendersi quindi indipendenti dalla famiglia di provenienza. L’indagine è stata condotta da Datanalysis intervistando mille mamme e papà rappresentativi della popolazione generale italiana, con l’obiettivo, appunto, di fare chiarezza sulla percezione del lavoro minorile da parte di genitori di bambini e ragazzini con meno di 16 anni. I dati raccolti, osserva Giuseppe Mele, presidente Paidòss, indicano una preoccupante indulgenza dei genitori italiani nei confronti del lavoro minorile: il 26%, con punte del 33% al Sud, non ci vede nulla di male, mentre il 20% ritiene che il giudizio debba dipendere dalla situazione del singolo. Di fatto, non viene condannato senza se e senza ma come ci si sarebbe potuti aspettare. Così, se da una parte oltre l’80 % ritiene che il lavoro minorile rubi ai ragazzini la formazione scolastica, l’infanzia e una normale crescita psicofisica, si scopre che a tutto questo si può in fondo rinunciare di fronte alle nuove necessità imposte da una crisi economica di cui non si vede la fine. Stando all’indagine, infatti, le difficoltà finanziarie giustificano il ricorso al lavoro di un bambino o un ragazzino per il 54% dei genitori, che indicano proprio la crisi come causa principale degli abbandoni scolastici nel 35% dei casi. Ma ciò che forse turba ancora di più è che solo il 34% delle mamme e dei papà costringerebbe a restare sui banchi un figlio intenzionato a lasciare la scuola per lavorare, impedendogli una scelta dannosa per la sua vita: uno su quattro accetterebbe la decisione pur ritenendola un errore, uno su cinque la considera una volontà da rispettare comunque. “Non è così perchè ogni bambino”, annota Mele “ha il diritto di essere protetto dallo sfruttamento economico, in qualunque sua forma”. Il 40% dei genitori italiani crede che il lavoro minorile sia un problema confinato al Meridione e altrettanti ignorano che esistono piccoli sfruttati anche al Nord. Questa mancanza di consapevolezza esiste anche perché spesso non si ha coscienza delle mille sfaccettature del lavoro infantile e lo si ritiene tale solo quando assume le forme eclatanti dello sfruttamento in fabbrica o dell’accattonaggio sulle strade. In realtà ha mille, subdoli aspetti. Anche aiutare i genitori nella loro attività, in un negozio o un’impresa, è lavoro che ruba ai figli tempo che andrebbe impiegato diversamente. Essere costrette ad aiutare nelle faccende di casa o nella cura dei familiari, come accade a molte bambine perfino molto piccole, è lavoro minorile domestico che può assumere i contorni dello sfruttamento. Oggi, prosegue il presidente Paidòss, il disagio economico sembra spingere molti a chiudere un occhio di fronte a bambini e ragazzini che cominciano a lavorare per venire in soccorso di un bilancio familiare dissestato, ma l’istruzione nell’infanzia non può essere sostituita con il lavoro, e gli impieghi dei minori non hanno mai valore, non insegnano niente, non saranno utili neppure per costruire un futuro lavorativo. Soprattutto,   conclude Mele, far lavorare un bambino o un ragazzino significa negare un diritto umano, il diritto a una crescita personale, sociale e morale in serenità che ciascuno deve avere.

 

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