L’avversione per l’altro è la paura nata dall’antipolitica

Si parla spesso di ‘paura’ un’emozione venuta alla ribalta della cronaca politica, che finisce per giustificare i comportamenti più rozzi, più offensivi, le reazioni improntate alla violenza.Occorre interrogarsi sul significato di una parola così abusata, che nasconde scenari complessi e a tratti inesplorati.Paura di che cosa? La prima risposta è:”Dei tanti pericoli che attendono ciascuno di noi appena si mette piede fuori di casa”. Minacce e pericoli di ogni genere più o meno velati, ma soprattutto non sempre reali. Del resto chi di noi ha mai vissuto una vita priva di rischi? E’ più corretto, quindi, parlare di fobia verso tutto ciò che è fuori o viene da fuori: exofobia. Così si definisce l’avversione per ciò che viene da fuori, che è estraneo. In un’epoca di scambi globali, di comunicazioni ultra veloci, di ritmi incessanti e senza sosta, che avrebbe dovuto essere la più aperta possibile, si rivela irreversibilmente chiusa. Essa è il risultato di chi aspira a restare immune da ogni mutamento, cercando, a tutti i costi, di scongiurare ogni alterazione. Non si tratta di indifferenza quanto di una precisa volontà di rendersi immuni. Si sbatte la porta in faccia all’altro, lo si scaccia perché potrebbe infettare. Non si tratta solo dello straniero, di chi viene da fuori, ma anche di vuole andare fuori, travalicare i propri confini nazionali. Fuori è corruzione ovunque. Il male viene dall’esterno, il bene è tutto all’interno. Tornano le vecchie dicotomie tra bianchi e neri, donne e uomini, stranieri e autoctoni. E chi non sa o non vuole vedere al di là del proprio naso o non vuole uscire dal proprio recinto finisce per nutrire rancore e a tratti odio per ciò che è estraneo. Si tratta chiaramente di ignoranza macroscopica nell’intendere il mondo, di malignità e male fede nel voler imporre a tutti una concezione del mondo, fondata su falsa integrità. E guai a criticare. Si rischia il linciaggio. Non è dato più professarsi altruisti, buonisti, si rischia di essere additati come quelli che non hanno ancora capito come vanno le cose. Mi pongo sempre più spesso la domanda:” Ma cultura non è estraneità? Non è la capacità si sapersi riconoscere nell’altro? Oggi essere cattivi, invece, fa tendenza, si sta cercando di fondare la scuola, mi si passi il termine, del cattivismo, in cui ognuno apprende come chiudersi in sé e restare proprio prigioniero, schiavo della fobia che lo pervade e nel contempo gli impedisce di ammettere i propri limiti, anzi lo convince ad esigere un ripiegamento degli altri, una sorta di prigionia nazionale.Sono, questi novelli cattivisti, i discepoli dell’antipolitica e dell’anticultura che fanno del’exofobia il simbolo per cercare consensi e affermare il proprio potere.

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