Le domande al governo egiziano sul caso Regeni

Non sapremo mai la verità su che cosa sia realmente accaduto al povero Giulio quando il 25 gennaio è stato fermato dalla polizia egiziana.
Dal Cairo continueranno a dirsi addolorati per la tragica scomparsa del nostro connazionale e prometteranno che le indagini saranno scrupolose e non di parte. Ma se le cose sono andate come è giusto supporre,il nome dei responsabili rimarrà un segreto di Stato e le circostanze della morte difficilmente riscontrabili.Nelle prospettive di un paese come l’Egitto, la riparazione di un atto ingiusto e crudele è molto meno importante, in questo momento, dell’efficacia dei dispositivi di sicurezza con cui il Paese si difende dall’Isis e dall’ala integralista dei ‘Fratelli Mussulmani’. Ed è evidente che in un paese minacciato dal terrorismo islamico, l’apparato di sicurezza non è forte se il governo non lascia alle forze di polizia un margine di autonomia nell’espletamento delle loro azioni.Si possono deplorare i metodi con cui Al Sisi ha conquistato il potere e la brutalità con cui impedisce alla stampa di fare il suo lavoro.Ma escluderei a priori che un governo straniero possa persuaderlo, in questo particolare momento,a modificare i suoi metodi.Che cosa sarebbe successo se avessimo pensato di spiegare al governo britannico quali erano i metodi da adottare contro il terrorismo dell’Ira.Oppure se le democrazie europee, dopo l’attentato alle Torri Gemelle,avessero tentato di suggerire al governo statunitense che i metodi adottati dalla Cia erano tollerabili, o che non era giusto rapire un imam nelle strade di una nostra città per trasferirlo in Egitto e torturarlo.E’ ovvio che resta naturalmente la misura del’interruzione dei rapporti diplomatici, quando i governi vogliono dimostrare rabbia e sdegno per il comportamento poco ortodosso di uno stato straniero.Ma in questo momento una via del genere non avrebbe senso, ed il risultato sarebbe quello di privarsi dei contatti con uno dei maggiori protagonisti della regione.Non avremmo più notizie sul Medio Oriente, e perderemmo il rapporto di amicizia che l’Italia ha costruito,nel corso degli anni, con l’Egitto.Certamente la situazione che si è venuta a creare è difficile ed imbarazzante. Non si può restare indifferenti difronte a quanto è accaduto al Cairo. Ma non possiamo nemmeno dimenticare che l’Egitto sta combattendo per difendersi dall’attacco di un’organizzazione terroristica che considera Roma uno dei suoi prossimi obiettivi.Il Paese dei Faraoni, in questo momento, è un alleato non un nemico.Questo non vuol dire che i metodi del governo egiziano debbano essere scusati. E’ nostro diritto di dire al Cairo, che una guerra contro un nemico, se pur spietato e sanguinario come l’Isis, non si vince senza il sostegno dell’opinione pubblica. E’, del resto, una legge democratica, a cui neppure l’Egitto si può sottrarre.

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