Uno dei pezzi fondamentali della legge sull’autonomia differenziata sono i Lep, i livelli essenziali di prestazione garantiti dall’approvazione definitiva del disegno di legge sull’Autonomia differenziata, noto anche come legge Calderoli, alla Camera.
Uno dei punti critici di questa riforma sono i Livelli essenziali di prestazione (Lep), che rappresentano i requisiti minimi di servizio da garantire in modo uniforme in tutto il territorio nazionale, per assicurare i diritti sociali e civili sanciti dalla Costituzione. Tuttavia, la definizione e l’attuazione dei Lep sono stati oggetto di grande scrutinio: secondo il disegno di legge, i Lep devono essere determinati in base alla spesa storica di ciascuna regione, un approccio che potrebbe favorire le regioni più ricche del Nord, con una maggiore spesa storica, a discapito di quelle meridionali. Una soluzione che potrebbe accrescere ulteriormente il divario tra le aree del paese, alimentando il dibattito sulla “secessione dei ricchi”.
L’autonomia differenziata rappresenta un cambiamento radicale nell’ordinamento italiano: permetterà alle regioni a statuto ordinario di esercitare autonomia legislativa su una vasta gamma di settori che in precedenza erano sotto il controllo dello stato. Tra questi ci sono il commercio con l’estero, l’istruzione, la salute, e la gestione dei beni culturali e ambientali, ad esempio. La riforma, a detta del governo, mira a riconoscere e adattare le disparità regionali, consentendo a ciascun territorio di adottare politiche più adatte alle proprie necessità.
Per gestire la situazione sui Lep, è stata istituita una Cabina di regia composta da esperti, presieduta dal giurista Sabino Cassese: l’organismo è incaricato di analizzare il quadro normativo esistente e di stabilire i Lep per le diverse materie di competenza. Di recente, anche questo istituto è stato messo in discussione dopo le dimissioni di quattro membri, un fatto che potrebbe minarne l’efficacia e l’imparzialità. Secondo Palazzo Chigi, l’autonomia differenziata dovrebbe rappresentare un tentativo di modernizzare il paese attraverso una maggiore flessibilità regionale, ma secondo i critici bisognerà a bilanciare efficacemente le esigenze di sviluppo regionale con il mantenimento dell’unità nazionale.
Il Ddl Calderoli è divenuto legge dello Stato, ora toccherà al Presidente Mattarella promulgarla e autorizzarne la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Ciò ovviamente a seguito di un attento esame – che il sempre scrupoloso Capo dello Stato avrà già compiuto facendo ricorso anche ai suoi saperi accademici – inteso a ritenere il testo approvato non apertamente in contrasto con la Costituzione.
La “legge Calderoli” di fatto scandisce la procedura che le Regioni, interessate ad acquisire una competenza legislativa differenziata per una durata massimo di dieci anni, dovranno seguire per perfezionare la prevista Intesa con il Governo, quello che sarà in carica. Al riguardo, quanto disposto nella legge – tenuto conto delle conclusioni cui è pervenuto il Clep sul tema dell’assistenza sociosanitaria nell’autunno scorso – mette in seria difficoltà il completamento del percorso del regionalismo differenziato in materia di tutela della salute. Ciò in quanto dai lavori del Comitato presieduto da Sabino Cassese sembrano essere stati confermati, nella loro definizione sostanziale, i Lea perfezionati con il Dpcm del 12 gennaio 2017. Ragione per cui, a stretto rigore di logica, sarebbe sufficiente che l’insieme Cabina di regia/istituita Commissione tecnica dei fabbisogni standard (commi 792/793 della Legge 197/2022) associassero a ciascuno di essi (Lea) il rispettivo costo standard che individuasse il fabbisogno standard per ogni Regione destinataria. Ciò prescindendo se istante della maggiore competenza legislativa (differenziata).
A ben vedere, potrebbe esserci a breve un gran da farsi a cura del Governo, anche allo scopo di partire con la prossima legge di bilancio per il 2025 senza finanziamento del Fondo sanitario nazionale – fondato sulla spesa storica sempre contestata nel suo ammontare annuo – bensì prevendendo l’ammontare del fabbisogno standard nazionale, basato sui costi standard commisurati alle esigenze delle Regioni.
Questo è quanto potrebbe avvenire a seguito della conferma dei Lea da parte del Clep e da quanto accollato al Governo, in termini di impegno istituzionale, dalla legge di bilancio per il 2023 in tema di definizione dei costi e fabbisogni standard.
Ma, come al solito, dal dire al fare c’è di mezzo la definizione generalizzata dei Lep. Non solo. In mezzo c’è la valorizzazione degli elementi portanti del federalismo fiscale attraverso la determinazione dei costi standard, quantomeno, per Lep e la individuazione per materia o ambito di materie del fabbisogno standard nazionale, ottenuto dalla somma dei fabbisogni standard regionali.
E ancora. C’è – e qui il grande vulnus del testo legislativo che, al riguardo, non prevede alcunché di applicativo – l’irrinunciabile esigenza di costituire finanziariamente i quattro fondi perequativi – previsti nella legge 42/2009 (artt. 9.1 e 13. 1) e dai suoi decreti delegati (art. 13 d. lgs. 23/2011, per i Comuni, e art. 15 d.lgs. 68/2011, per le Regioni) – a garanzie della copertura dei Lep per gli enti territoriali con gettito fiscale proprio insufficiente. Diversamente, per i non Lep che dovranno trovare la copertura perequativa sulla base della capacità media fiscale per abitante, con ovvio e ineludibile impegno per gli enti destinatari di “affilare” la loro capacità accertativa e di riscossione delle tariffe e tributi propri, da aggiungere a quelli compartecipati con lo Stato.
In definitiva, ci sarà tantissimo da fare, soprattutto recuperando i tempi non rispettati previsti nella legge di bilancio per il 2023 (commi 791-801, legge 197/2022) e mettendo a duro lavoro la Commissione tecnica per i fabbisogni standard, sino ad oggi ferma al palo.
Nel frattempo, non si potrà trasferire alcuna materia, tra quelle differenziabili, alle Regioni, causa l’insuperabile impedimento delle condizioni anzidette (definizione Lep e costi/fabbisogni standard), gli unici strumenti a rendere garanti in tutto il Paese una eguale esigibilità dei diritti sociali in favore della Nazione, ovunque essa si trovi.
Rimane comunque il tema, fondamentale, di come saranno finanziati i Lep e i non Lep. Un problema tirato fuori, inopportunamente per come è stato impostato, in corso di esame in Parlamento della legge quadro approvata, regolativa dell’attuazione del regionalismo differenziato. Si è arrivati addirittura a manifestare una ampia sorpresa che in essa non fossero indicate le coperture finanziarie per l’erogazione dei Lep e non. Una sorpresa che era tuttavia sprovvista di motivazione logica e giuridica perché il già Ddl Calderoli – del tutto simile a quelli Boccia (2020) e Gelmini (2022) – disegna le procedure attraverso le quali le Regioni interessate possono pervenire alla legislazione differenziata. Solo questo. Rinviando tutto il resto (definizione dei Lep e costi/fabbisogni standard), come è ovvio che sia, alla adozione dei rispettivi decreti legislativi e, quanto alla copertura delle spese relative, alle leggi di bilancio annuali e triennali.
Dunque, nei prossimi mesi ci sarà tanto da vedere, ma soprattutto da lavorare istituzionalmente. Soprattutto, ci vorrà tanto impegno in favore della sanità. Di quella tanto acclamata da tutti ma lasciata stare, da una decina di anni a oggi, nel peggiore dei periodi di sempre.
Il problema fondamentale dell’approccio del governo all’autonomia differenziata è che la decisione su quali funzioni delegare è attribuita puramente alla mediazione politica. A parte qualche vago principio richiamato in apertura, manca nel disegno di legge delega qualunque criterio esplicito che guidi la contrattazione tra gli esecutivi. Il governo nazionale e quello regionale contrattano e si mettono d’accordo su cosa delegare, e il Parlamento vota il risultato finale, senza possibilità di intervenire in itinere e anche con il grosso rischio che una volta raggiunta un’intesa non sia più possibile tornare indietro.