Ricordiamo che il Pd è nato nel 2007 dalla fusione di due dei principali partiti fondatori dell’Ulivo, la coalizione che aveva consentito a metà degli anni ’90 alla sinistra di accedere per la prima volta al governo del paese per via elettorale.  Veltroni ebbe a dire nella campagna elettorale del 2008 che l’Italia doveva prepararsi a un nuovo boom economico e che la sfida con la destra si giocava sul terreno – neutrale socialmente – dell’affidabilità delle classi dirigenti del paese nel gestire la nuova fase espansiva. Pochi mesi e iniziò la crisi dei mutui subprime e il mondo – Europa compresa – precipitò nella recessione più buia dell’ultimo secolo. Non vedere quel terremoto che creava malesseri profondi che covavano sotto le ceneri di società divise fu il difetto di nascita che produsse successivamente lo sfondamento del renzismo.

Zingaretti arriva alla guida del Pd dopo che i pozzi sono stati  avvelenati. Non c’è riforma della sinistra italiana senza una analisi delle trasformazioni di questi anni, sul perché una larga parte della società si è affidata alle sirene che comodamente e frettolosamente sono state  definite populiste. Populismo che, tra l’altro, è entrato direttamente in casa quando si è teorizzata una sinistra depurata dal peso dei corpi intermedi, una politica che segue l’opinione pubblica anziché provare a indirizzarla, l’elogio del nuovismo come unica strada per sbloccare il sistema. Sarebbe stata necessaria una rifondazione più forte: se è vero che siamo davanti a un cambio di stagione che riapre il nodo di un nuovo compromesso con il capitalismo finanziario dopo la battuta d’arresto del modello sociale europeo.

L’uscita di Nicola Zingaretti rappresenta un problema per tutto il campo, un arretramento simbolico che fa il paio con la sconfitta del governo Conte.

Per questo, al di là delle improvvise dimissioni di Nicola Zingaretti, è inevitabile che nel Pd si avvii una verifica sulla funzione che questo partito dovrà svolgere nei prossimi mesi e anni, come anche una discussione sull’idea di Paese nel dopo pandemia. L’emergenza sanitaria, e quella economica e sociale, se da un lato hanno reso più evidenti i ritardi e acuito divari e disuguaglianze, dall’altro hanno però accelerato enormemente un processo di trasformazione dei modelli sociali di lavoro, di produzione, di cura che era già avviato, ma dentro il quale ora siamo definitivamente calati. Proporre un’agenda per rispondere a questi mutamenti sarà ancora più doveroso, nel momento in cui la parentesi di questa maggioranza da fronte nazionale si chiuderà.

Per questo, il Partito Democratico non può rinunciare ai propri connotati originari di forza riformista e popolare, punto di riferimento per il campo progressista. Al più presto deve tornare a declinare l’unità di tutti i riformismi italiani su cui è nato, offrendo insieme una direzione e una proposta riconoscibile per il futuro dei cittadini. Se questo progetto tarderà, o peggio imploderà, a pagarne lo scotto sarà innanzitutto l’azione dell’attuale governo, che ha tra le mani risorse e progetti da cui dipende il futuro delle prossime generazioni e dell’Italia stessa. Politiche per la transizione verde e digitale, parità di genere a partire da un piano per l’occupazione femminile, investimenti sulle politiche di cura: senza il Pd, su tutti questi temi, sarebbe molto più debole il profilo riformista del Governo.

La disponibilità di Enrico Letta a guidare questo percorso è  una buona notizia, per la storia e l’autorevolezza che è in grado di esprimere. La sfida però, oggi, non è di un uomo solo, ma coinvolge tutti. Per uscire dalla crisi che il Pd sta vivendo la strada non è un finto unanimismo, ottenuto soltanto distribuendo posti di gestione e incarichi politici. Quello che è mancato, ancora una volta in queste ultime settimane, è stata la capacità, da parte di tutti, di rispettare e riconoscere posizioni diverse e legittime. In un partito plurale, come il Pd,   la sintesi passa dal saper far coesistere opzioni anche distanti, più ancora che da una unità imposta sempre e per forza. Senza questo atteggiamento costruttivo attraverso il quale il Pd deve ritrovare il suo essere comunità di simpatizzanti, iscritti ed eletti, una casa comune il cui destino conti davvero più della somma delle diverse anime.

Il Pd soffre su interi territori e ha difficoltà ad attrarre le energie di giovani, donne e pezzi di società organizzata. È il segno che sul confronto tra idee politiche e culturali ha prevalso il correntismo, degenerazione contro cui si è schierato e dimesso Zingaretti. Troppe volte, però, questo travaglio irrisolto è stato aggirato; troppe volte ha prevalso il timore che convenisse non toccare equilibri sedimentati. E troppo spesso in questi anni è stato proposto un rinnovamento soltanto per restare uguali a prima.

Da oggi il Pd deve uscire con una guida autorevole, nel pieno delle funzioni, che sappia coinvolgere le forze motrici della società, che metta in campo categorie e modelli differenti, finora rimasti in secondo piano, per collocare il partito in una relazione nuova con la società, con le istituzioni dello Stato e con il governo.