Da virus da evitare a tramite per la cura di malattie genetiche. E’ quanto intuito dallo scienziato italiano Luigi Nandini, che ha scoperto come l’Hiv “addomestivato possa essere usato come usato come postino per imbucare nel cuore delle cellule la copia corretta di un gene difettoso”. La prova vivente di tale scoperta sono sei bambini, affetti da due gravi malattie genetiche – la leucodistrofia metacromatica e la Sindrome di Wiskott-Aldrich che, dopo tre anni di trattamenti con terapia genica “stanno bene e mostrano significativi benefici”, come annunciano gli scienziati dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (Tiget) di Milano. I risultati della cura sono pubblicati su ‘Science’ in due studi paralleli.
L’idea di usare il virus dell’Aids come navetta, risale a 17 anni fa: “Questo virus nell’uomo è molto infettivo e capace di entrare nelle cellule – spiega Naldini – Una volta ‘addomesticato’ e sfruttandone la capacità infettiva otteniamo un vettore molto efficiente che apre la strada al disegno di vari tipi di terapie innovative di ingegnerizzazione delle cellule di un individuo”. Negli studi pubblicati su Science”abbiamo arruolato i bambini all’inizio della malattia, in fase ancora pre-sintomatica o ai primi esordi dei sintomi. E oggi a distanza di tre anni quando la malattia avrebbe già dovuto manifestarsi in modo conclamato questi bambini sono normali hanno continuato a crescere, stanno cominciando ad andare all’asilo, e la malattia non si è ancora manifestata”.
Cosa fare quando invece la malattia ha già fatto danni? “Questa è la sfida ulteriore: oggi abbiamo un risultato importante provando per la prima volta l’approccio. Bisognerà capire quanto sarà possibile tornare indietro. I danni conclamati nel sistema nervoso oggi purtroppo non sono riparabili, ma un intervento in fase iniziale potrebbe essere oggetto di prossime sperimentazioni”. La spinta ad andare avanti, continua Naldini, è stata “intravedere la possibilità di intervenire su una malattia genetica devastante che colpisce tanti organi, eppure alla base ha un piccolo, stupido errore. Una parola sbagliata in un lungo libro. Sapere di poterlo correggere e vedere che funziona prima in laboratorio, poi nei modelli animali e infine nei pazienti dà forza e voglia di arrivare a risultati”.