Libia, gli interessi italiani che Conte deve difendere con Haftar e Sarraj

L’8 gennaio il premier ha incontrato a Palazzo Chigi il generale Khalifa Haftar in occasione di quello che in non poche sedi internazionali è già stato ribattezzato come un vero disastro diplomatico. Quando nel tardo pomeriggio è arrivata la notizia, poi smentita,  di un presunto “rapimento”, o “arresto”, del primo ministro libico Fayez Al Sarraj, si è subito vociferato che fosse stato lo stesso Sarraj a dare forfait, forse infastidito dal mancato avviso della presenza del suo rivale a Roma.

Il governo italiano da tempo lavora alla stabilizzazione della Libia, attraverso la ricomposizione del quadro delle istituzioni economico-finanziarie libiche, un maggior coinvolgimento dei militari che possiedono il controllo reale del territorio e di tutte quelle parti che erano rimaste escluse dai processi decisionali in passato.

Anche in questo caso, Conte avrebbe potuto, e dovuto, rilanciare davanti al mondo il ruolo di primo piano dell’Italia nella gestione della crisi libica (fu lo stesso Donald Trump mesi fa a posizionarci in prima fila), e invece l’incontro si è trasformato in un fallimento che rischia di minare pesantemente la nostra credibilità internazionale.

La Libia sta attraversando la sua terza guerra civile dal 2011, iniziata il 4 aprile 2019 con la marcia su Tripoli contro il premier Sarraj da parte del generale Haftar, alla guida dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna). Un’avanzata che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere lampo, e che invece è diventata un fiume di vittime e sfollati.

Per quanto il premier Conte abbia più volte ribadito la neutralità italiana nella crisi libica (“Né con Sarraj né con Haftar, ma con il popolo libico”), il nostro Paese in realtà si trova costretto a fare i conti con la difesa degli interessi nazionali in Libia.

“L’Italia deve fare bene i suoi calcoli, visto che gli interessi nazionali sono principalmente in Tripolitania, a partire dall’impianto Eni di Mellitah, e dalle commesse energetiche, che vengono cogestite con la Noc, autorità petrolifera nazionale che, come la Banca centrale, risponde a Sarraj”.

Fu proprio Conte a pronunciare questa frase. E infatti, eccoli i nostri “conti”: prima di tutto l’Italia non è autosufficiente in termini energetici, e dunque dipende dai Paesi esteri per l’approvvigionamento. Dalla Libia si rifornisce ad esempio di gas e petrolio, anche se non in via esclusiva. L’ inasprimento dei rapporti con il governo libico potrebbe portare ad un rialzo non indifferente dei prezzi di questi beni. Con la conseguenza di un “affaticamento” dei conti pubblici, un aumento del disavanzo e un conseguente, e inevitabile, innalzamento del debito.

Poi c’è la questione delle infrastrutture. L’Italia ha investito miliardi per costruire impianti energetici in Libia. Quelli di Eni in primis, naturalmente, ma anche il sopracitato gasdotto di Mellitah, Greenstream, che trasporta gas fino alla Sicilia scorrendo nel sottosuolo marino.

FederPetroli non ha usato mezzi termini  per bollare questa come una “guerra per i giacimenti petroliferi in più regioni del Medio Oriente che oggi, rispetto a 20 anni fa, producono milioni e milioni di barili di petrolio”, ha denunciato il presidente Michele Marsiglia, aggiungendo che “sino a poco tempo fa non interessava a nessuno il territorio libico, ma adesso la Regione è diventata terra di conquista”. E ha aggiunto:

“L’obiettivo di altre nazioni è solo ed esclusivamente l’entrata nei processi di gestione dei giacimenti petroliferi e le enormi riserve di olio e gas ancora da sfruttare nel centro-sud del Paese. Il tentativo di destabilizzare l’Italia è evidente, ma Eni non si tocca”.

Inoltre, c’è un altro nodo cruciale collegato a gas e petrolio: l’occupazione generata da questi settori per gli italiani, plus che invece manca ad esempio con l’Arabia Saudita, dove negli impianti lavorano solo operai sauditi.

Oltre agli interessi strettamente economico-finanziari, ci sono poi quelli più geopolitici. Come ovvio, è utile che ogni Paese intrattenga relazioni distese con i propri vicini. Inoltre, l’Italia rappresenta il naturale punto di approdo dei flussi migratori provenienti dalla Libia, come ben sappiamo.

Un governo nemico di là dal Mediterraneo farebbe saltare i tanto discussi accordi sull’immigrazione presi dall’ex ministro degli Esteri Marco Minniti, con una probabile, e massiccia, intensificazione dei flussi verso le nostre coste.

Secondo il presidente Usa Trump siamo persino una risorsa “imprescindibile per la sfida strategica del Mediterraneo” anche nella lotta contro il terrorismo, perché, secondo The Donald, i rapporti di buon vicinato sarebbero in grado di scongiurare il rischio di vedere trasformata la Libia in una nuova base dell’Isis per far partire terroristi pronti a colpire l’Europa.

Intanto, la Turchia di Erdogan valuta l’invio di truppe in Libia   dopo la richiesta del governo di Serraj sostenuto dall’Onu, e il nostro ministro degli Esteri Luigi Di Maio parla di ‘ombrello europeo’ per porre “un freno alle interferenze dei singoli Stati, per poi lavorare insieme a un embargo totale via terra, via mare e via aerea che porti la Libia quanto meno verso una tregua”. Una situazione esplosiva, a due passi da noi.

Il Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna) “accoglie con favore qualsiasi appello alla ripresa del processo politico e ad allontanare lo spettro della guerra, in conformità con l’Accordo politico libico e il sostegno alla Conferenza di Berlino patrocinata dalle Nazioni Unite”. Lo si legge in una nota del Gna pubblicata dopo l’incontro di ieri ad Istanbul tra il presidente russo Putin e quello turco Erdogan nel quale i due hanno proposto tra le altre cose “un cessate il fuoco in Libia a partire dalla mezzanotte di domenica prossima”.

Ieri l’appello dopo il colloquio a porte chiuse di oggi tra i due leader a Istanbul.

“Una pace solida e stabile in Libia può essere raggiunta solo mediante un processo politico condotto ed effettuato dai libici e basato su un dialogo franco e inclusivo fra loro” veniva detto in una dichiarazione congiunta dei due. I due leader hanno constatato inoltre che “scommettere su una soluzione militare del conflitto porterebbe solo a ulteriori sofferenze e renderebbe più profondi i dissidi fra i libici”.

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