Decine e decine di morti, forse 100: un’ecatombe. Non c’é più speranza fra i resti carbonizzati della Grenwell Tower. Se ad ammetterlo sono i vigili del fuoco, che da due giorni sfidano temperature insopportabili e fumi tossici, bisogna crederci. Se poi sono i genitori di due ragazzi poco più che ventenni, come Gloria Trevisan e Marco Gottardi, non resta che il silenzio.
Non c’é più speranza nel grattacielo ‘popolare’ di North Kensington, inghiottito l’altra notte a Londra in un rogo degno dell’apocalisse e ridotto a scheletro. Le fiamme dell’inferno adesso sono spente. Quelle della rabbia e della polemica no. Se ne farà un’inchiesta.
Una vergogna in grado di far cadere un cadere un governo, laddove il Regno ne avesse uno nel pieno delle sue funzioni. La portata del disastro prende forma a fatica. Nella mente di chi é chiamato a darne conto prima ancora che nelle complesse procedure d’indagine e riconoscimento delle vittime in uno scenario tanto devastato. Stuart Candy, capo operazioni di Scotland Yard sul terreno, non ha ancora una stima esatta dei morti. Ma ne ha un’idea. E ricorre a un giro di parole: ‘Speriamo che il numero non sia a tre cifre’. Un auspicio che nasconde il timore che lo sia, che i fantasmi della torre diventino alla fine 100 morti o più. Per individuare i resti di tutti ci vorranno settimane, precisa. E alcuni corpi – ma parlare ancora di corpi non rende probabilmente il senso di un orrore di fronte al quale anche pompieri esperti e temprati a tutto non hanno saputo trattenere le lacrime – potrebbero non essere riconosciuti mai più.
Uno strazio nello strazio. La conta ufficiale aggiornata si ferma per ora a 17 morti, e decine di feriti, 18 in condizioni “critiche”. Ma decine sono anche coloro che restano nell’elenco dei cosiddetti dispersi. Solo il pudore, e il richiamo al miracolo, trattiene dalla sentenza senz’appello. Una cosa comunque é certa: là dentro, fra le rovine, non c’é più anima viva, come é costretta ad annunciare la comandante della London Fire Brigade, Dany Cotton. Nessun altro é sopravvissuto fra coloro che abitavano in quella trappola su 24 livelli. Soprattutto ai piani alti, come il 23esimo, il piano in cui avevano trovato alloggio Giada e Marco, in un palazzone realizzato nello stile dell’edilizia popolare degli anni ’70, ma gestito come un business privato, con appartamenti neppure a buon mercato per gli standard di chi ci viveva campando di stipendi base, di pensioni, talora di sussidi: working class, immigrati, giovani in cerca di fortuna. Le storie di speranze annichilite sono tante.
E sembra un oltraggioso paradosso scoprire che la prima vittima identificata si chiamava Mohammed Alhajali, profugo dalla martoriata Siria e studente 23enne d’ingegneria che una foto restituisce nascosto dietro un sorriso appena accennato e con una camicia a scacchi. Ora gli interrogativi si fanno roventi. La polizia ha aperto la doverosa indagine penale, ma senza precisare per ora se le ipotesi di reato siano colpose o anche dolose. Il tam tam delle denunce, che in realtà un comitato di cittadini aveva sollevato da anni sulle condizioni della Grenfell Tower come di altri edifici, insiste sul fiasco dei sistemi d’allarme, delle norme di sicurezza, delle indicazioni di emergenza. Oltre che sull’effetto potenzialmente micidiale di un maledetto rivestimento in plastica isolante installato da poco.
La premier conservatrice Theresa May prova a rispondere con l’ennesima inchiesta pubblica indipendente, ma sul luogo del disastro si fa vedere solo fra soccorritori in uniforme, forse nel timore di contestazioni. La verità deve venire fuori, ci vogliono risposte, le replica il leader laburista Jeremy Corbyn, capace al contrario d’incontrare ancora gli abbracci e i sentimenti della gente comune del quartiere.