“Luoghi comuni. Il potere della parola. Errori, bellezze, stranezze del linguaggio giornalistico italiano” di Fabrizio Binacchi

Dott. Fabrizio Binacchi, Lei è autore del libro ‘Luoghi comuni. Il potere della parola. Errori, bellezze, stranezze del linguaggio giornalistico italiano’, edito da Minerva: quale diffusione hanno, nel linguaggio giornalistico italiano, i cosiddetti «luoghi comuni», le frasi fatte e le parole stereotipate?

Luoghi comuni. Il potere della parola. Errori, bellezze, stranezze del linguaggio giornalistico italiano, Fabrizio BinacchiSono molto diffusi, più di quanto immaginiamo. Scappano e ci scappano senza che accorgercene. Inconsapevolmente. È questo il problema. Una frase-fatta, uno stereotipo, un detto popolare, un luogo comune possono essere usati e possono persino arricchire il testo, orale o scritto che sia, ma quando “scappano” inconsapevolmente e per “tic linguistico” il testo inevitabilmente ne risente e diventa più povero, meno efficace, meno incisivo.

Con questo libro “Luoghi comuni” non ho voluto fare il professore, anche se ho insegnato in vari Master di comunicazione e giornalismo, e tanto meno il censore. Ognuno può e deve scrivere e parlare come vuole e come crede, nell’ambito ovviamente dei limiti stabiliti dal fondamentale art. 21 della Costituzione. Tuttavia (quanto mi piace la parola tuttavia) ho ritenuto opportuno giocare con i luoghi comuni, prendere a pretesto frasi fatte e stereotipi per scoprire e far scoprire il potere della parola.

Pensiamo alla parola “linea” che noi usiamo così distrattamente, eppure questa linea può essere quella della moda e il risultato dell’eventuale dieta, ma anche la linea politica, anche linea allo studio o linea alla regia, e la linea editoriale del giornale. Dovremmo pronunciare questa parola “linea” con maggiore rispetto. Solo per fare un esempio naturalmente. Poi ci sono gli stereotipi di cronaca, soprattutto nera, tipo “gli inquirenti rimangono abbottonati”, “gli investigatori brancolano nel buio”, “giovane pistola alla mano”, “ricercano attivamente il fuggitivo”, frasi che, di per sé, non sono brutte, non sono errori, ma diventano quasi un ritornello che indebolisce il testo, se sono usate troppo e senza consapevolezza.

Ovviamente tutto questo non riguarda soltanto noi giornalisti o cosiddetti operatori della comunicazione, riguarda tutti: se usiamo parole incisive e potenti, facciamo frasi chiare e nette, le frasi chiare e nette aiutano a capirsi e a capirsi meglio, a non litigare, e ad evitare contenziosi.

Anche nei linguaggi tecnici si può essere chiari, a cominciare da quelli tra ingegneri e avvocati, tra virologi e geologi, tra informatici e scienziati vari. Quando si parlano tra loro possono permettersi anche di usare parole e frasi a codice, ma quando parlano a tutti noi devono, dovrebbero, sforzarsi di trovare quelle espressioni che tutti possono capire e assimilare. Guardi che non è difficile, ci vogliono buona volontà e tempo. Guardi, qualche anno fa ho partecipato a seminari “di traduzione giornalistica” di titoli di ricerche scientifiche e tecniche di dottorandi e dottori di ricerca di ingegneria dei materiali, di microbiologia, di informatica e via discorrendo nelle università di Parma, Brescia e Firenze. All’inizio mi guardavano tutti con diffidenza e un po’ di sospetto. Che ne sa questo giornalista di benzene e di neoplasie? Poi abbiamo lavorato sui testi di titoli e sui contenuti delle ricerche e tutti i lavori potevano avere una “traduzione” giornalistica per una diffusione più popolare. Che è quello che serve alla ricerca. Il ricercatore cedeva un po’ di scientificità e il giornalista traduceva con immagini più popolari, il giusto incontro tra senso e buon senso ha portato un lavoro di un gruppo di ricercatori di Parma a vincere una copertina con l’”Acchiappa-benzene”.

Che effetto produce sul lettore l’uso di stereotipi linguistici?

L’uso eccessivo e indiscriminato di frasi fatte, stereotipi e luoghi comuni rende il testo “flaccido”. La definizione non è mia ma di un grande giornalista e amico che si chiama Federico Scianò, già inviato del Tg1 e sensibilissimo analista della funzione della parola e dell’immagine nell’informazione, scomparso nel 2003. A lui ho dedicato il libro. È stato un mio maestro di etica giornalistica. Un giorno nel cortile di via Teulada a Roma, dove fino al 1992 c’erano le redazioni dei Tg prima del trasferimento a Saxa Rubra, commentando un bel servizio di una collega della cronaca mi disse. “Vedi Fabrizio, ricordi quel servizio perché Francesca (De Carolis) ha usato parole “croccanti”, cioè efficaci, giuste al posto giusto, senza stereotipi e luoghi comuni”. Le parole croccanti, cioè precise, definite, strutturanti, come cerco di spiegare anche con piccoli schemi nel libro, creano frasi forti e cioè vere, trasparenti, essenziali, incisive, decise. La parola flaccida, cioè quella non pensata, casuale in quel contesto, approssimativa, produce frasi deboli, a volte contorte, spesso ambigue e contenenti contraddizioni di senso e di logica. Un esempio: “improvviso raptus” e dopo una riga si legge o si sente “ma il soggetto aveva dato segni premonitori”. La reazione del lettore o dell’ascoltatore è quanto meno di sorpresa e disorientamento. E magari cala la fiducia e il senso di affidabilità.

Basta poco per rendere croccante una frase, usare quelle parole che servono in quel posto pensando che quella frase deve essere capita dal maggior numero di persone che conosciamo e non conosciamo. Un bell’esercizio.

L’uso di stereotipi e frasi fatte rendendo il testo stesso un po’ stereotipato e “fatto” induce il lettore o l’ascoltatore ad abbassare l’attenzione (“sono le solite frasi” è il commento più diffuso) e ad abbassare l’affidabilità e il senso di condivisione. Non è bello per chi vuole fare informazione ed essere credibile ed affidabile. Sono tre i nemici principali dell’informazione: i luoghi comuni, il copia-e-incolla- e la superficialità. Dei luoghi comuni, frasi fatte e stereotipi stiamo parlando, del copia-e-incolla non dovremmo nemmeno parlare, della superficialità si parla poco, eppure è un male strisciante e pervasivo. Non può essere superficiale un chirurgo che sta incidendo un tessuto, non può essere superficiale un ingegnere che sta facendo un ponte, non può essere superficiale un giornalista che sta scrivendo o raccontando una notizia. Diceva Rino Bulbarelli, compianto direttore della Gazzetta di Mantova, il mio primo giornale, che ai giornalisti il lettore perdona anche l’errore, anche un titolo non azzeccato, ma non perdona la superficialità. La superficialità è un veleno mortale per il giornalismo. Piero Ottone ci ricordava che soprattutto nella cronaca locale se sbagli anche il colore dell’auto coinvolta in un incidente anche non grave perdi punti di credibilità.

Perché nel giornalismo si ricorre così spesso alle frasi fatte?

Un po’ per pigrizia e un po’ per tradizione, sbagliata, un po’ perché si pensa di imitare padri nobili e in realtà si ricorda male se si fanno pasticci. Diciamoci tutto. Il giornalismo è fatto anche di schemi, di meccanismi tecnico-linguistici radicati nell’esercizio della professione, che discendono da una scuola di fatto, quella delle redazioni, e da una formazione in aula e in stage da quando sono state introdotte, più di trent’anni fa, le scuole universitarie di giornalismo. Gli schemi aiutano. Lo schematismo e la ridondanza di meccanismo nel racconto invece di aiutare possono dar fastidio al lettore e all’ascoltatore. “La tragedia è maturata” potrebbe essere un buon inizio ma se esageriamo, più che maturare, il racconto diventa fastidioso o indifferente. Il giusto tono e le parole precise, non ripetute a filastrocca o a cantilena, sono la ricetta migliore. Se a uno o a una scappa uno stereotipo o una frase fatta non cade il mondo, ci sono anche gli strumenti sia lessicali sia non verbali per renderli anche simpatici. Ma il lettore e l’ascoltatore devono capire che lo hai fatto per scelta, per gusto, non per superficialità o distrazione.

Se tutte sono “misure shock” allora è tutto uno shock, se ogni “frase è rebus” non compriamo più la settimana enigmistica, se tutto si “tinge di giallo” rischiamo di sporcarci o di diventare degli evidenziatori. Ecco l’ironia aiuta molto a giocare con i luoghi comuni. E a limitare il loro uso.

La collega e grande amica Camilla Ghedini, che firma l’introduzione del libro, sottolinea alcuni aspetti fondamentali del rapporto tra forza del giornalismo e natura del linguaggio che i giornalisti usano. Come dice correttamente e opportunamente Camilla “un giornalista non può parlare o scrivere come un saggista, ma neppure in maniera elementare. Come ci siamo finiti in questo limbo che ci vede da un lato destinatari di legittime accuse di parzialità e dall’altro di ingiustificate imputazioni di inutilità? A causa dell’abuso o del non corretto uso delle parole, talvolta per fretta, desiderio di sintesi” Questo è uno dei problemi fondamentali. Infatti anche Camilla elenca alcuni buchi grigi che spesso si incontrano nella lettura e nell’ascolto che possono incrinare il rapporto fonte della notizia fruitore della notizia: Eppure, esangue non è esanime, ferito mortalmente non è sopravvissuto, un avviso di garanzia non è una sentenza della Cassazione. Si maneggiano a sproposito un sacco di termini che inducono equivoci convinzioni giudizi. Qualche anno fa andava di moda il concetto di ‘potere forte’ in qualsiasi contesto. Oggi tutti hanno ‘opinioni forti’, cosa diversa da autorevoli, frutto di competenze”, conclude giustamente Camilla

Nel libro Lei raccoglie un florilegio di espressioni da luogo comune e parole stereotipate, tic verbali e frasi fatte: quali sono, a Suo avviso, le più inflazionate?

La frase che mi provoca un certo disturbo è l’“incidente si è verificato”. Di solito si verificano i conti o un accordo, si verifica un peso o una distanza, ma un incidente accade, avviene. Non è più semplice dire e far capire che un incidente è avvenuto sulla Statale tal dei tali e ha coinvolto un’auto e una moto? Magari poi scattano le verifiche, gli accertamenti, delle forse di polizia, ma l’incidente verificato ha il sapore del bilancio, di certificazione.

Un’altra espressione che è molto diffusa e non ha ragione d’essere da un punto di vista linguistico e logistico è “la riunione si tiene presso” l’Aula Magna. Quindi accanto, “apud” in latino, non nell’aula magna. Si pensa che “presso” sia più gentile, raffinato, è tutto un presso e invece è dentro. A volte con un margine di provocazione dico: se mi invitate presso l’aula consiliare io non entro, perché mi dite che è presso. Ma ci sono tante altre espressioni che passano nell’informazione, nella comunicazione, negli scambi anche formali di messaggi e sono luoghi comuni, frasi fatte e qualche volta pure stranezze. Stringere la cinghia: nel senso di risparmiare, evitare spese superflue o non giustificate. Ci sta: espressione usata spesso nel linguaggio di costume colore e a volte in economia, raramente in finanza. Ma a volte è tutto uno stringere la cinghia e mai quella dell’auto. Traccia spia: in un mondo dove tutto è ormai tracciato, basta passare una semplice carta di credito vicino a un lettore non c’è quasi più niente da spiare. Ma noi giornalisti cerchiamo di resistere anche all’ineluttabile e ci piace ricorrere alla cara vecchia traccia spia come ai tempi di Arsenio Lupin. E poi “È rebus”, È giallo, “brancolano nel buio” (fa sempre sorridere) “misura shock”, “andiamo con ordine”, (sarebbe una notizia andare con disordine), “entriamo nella notizia” che ha sempre un qualcosa di chirurgico, ma ci sono anche conduttori che cominciano con la frase: “Vediamo subito le notizie” e ti verrebbe la voglia di replicare “Perché altrimenti volevi parlarmi dei tuoi sentimenti”. Molte espressioni sono di collegamento inutili.

Invito a riflettere su queste; “D’altro canto e dal canto suo” Tempo perso e non saprei come giustificarlo. Perché d’altro canto? In che senso? Come direbbe un mio amico, ineffabile psicologo. Appunto: chiediamoci più spesso “in che senso” e cercheremo un nuovo senso. D’altro canto, per passare a raccontare cosa disse il sindaco dopo che parlò il presidente della provincia ci può anche stare anche se perdi due preziosi secondi in una eventuale registrazione. Ma quello che quasi sempre non ha giustificazione logica è usare dal canto suo. il sindaco, è ovvio che sia dal canto suo, perché se fosse “dal canto di un altro” sarebbe un sindaco dai super poteri o leggermente schizofrenico.

Nel libro “gioco” con un centinaio di luoghi comuni, frasi-fatte e parole stereotipo ma ne vengono usate molte di più, un migliaio. Poi ci sono le parole di moda, quelle che durano una stagione o meno, come rottamazione, petaloso, sostenibilità, resilienza, e gli inglesismi o gli anglicismi da food a fashion da mission a vision, tutta una mission tutta una vision, e le parole che provengono dal social linkare, likeare, postare. Poi ci sono i tic linguistici che nel giornalismo parlato diventano luoghi molto comuni “come dire, “ciò detto”, “d’altro canto, è anche vero, comunque”, sentita e registrata. Nel libro racconto l’episodio in cui Paolo Frajese storico e famoso conduttore delle 20 del Tg1 e io umile redattore economico sindacale avevo usato la parola “esubero” e lui venne a contestarmi che tra 15 milioni di telespettatori (1989) pochi potevano sapere il significato di esubero. Fu una lezione, quasi in diretta. Un’altra espressione che mi fa sempre molto pensare è la seguente “È tutto!”. Detta in chiusura di Tg o Gr o altro. Ma sarà tutto per te, chi l’ha detto che è tutto anche per me. È tutto? Ma sei sicuro? Sicura? E qualcuno dice anche: “È davvero tutto! Ah, pensavo per finta. Direi, espressione temeraria.

Frasi fatte e parole stereotipate hanno accompagnato anche le cronache dei grandi giornali italiani appena nati nella seconda metà dell’Ottocento: quali formule ricorrono più spesso nei giornali dell’epoca e quante sono giunte sino a noi?

Luoghi comuni e frasi fatte hanno sempre accompagnato l’informazione e il racconto giornalistico in ogni genere e in ogni settore, da quello della cronaca a quello sportivo, dall’economia alla letteratura, ai grandi reportage degli inviati, anche di guerra. Sono ricorrenti anche nella stampa di fine Ottocento “efferato delitto”, o “bocche cucite”, come pure “fortuna cieca”, “magro bottino”, “sinistro crepitare delle fucilate”, od “ onesta franchezza” e così via esemplificando quasi all’infinito. Come ben annota nel suo contributo lo storico Angelo Varni “è esito comune per chi voglia riguardare la stampa dell’800, con forse una maggiore dimostrazione, in particolare nelle frasi fatte, di una cultura più ricca di sfumature raffinate, nella consapevolezza di rivolgersi, per altro, ad una platea di lettori ben più avveduta di quelle susseguitesi nei periodi successivi. E Varni aggiunge: le differenze tra l’odierna comunicazione ed i luoghi comuni ottocenteschi vanno ben oltre queste lontananze formali e linguistiche, quanto piuttosto si richiamano a concetti propri degli orizzonti storici del tempo, che parlavano di patria, di nazione, di umanità, di missione da realizzare, per un popolo italiano chiamato ad “affermare il principio di nazionalità sui ruderi della teocrazia, glorificare la libertà religiosa e i diritti della civiltà sulla terra del Sillabo e del dogma”( in “La Riforma” del 3 ottobre 1870). Ed era, dunque, un continuo appellarsi, con Mazzini in testa ed i suoi innumerevoli giornali, ma insieme a lui tutto il mondo democratico e pur quello liberale, alla “fratellanza universale” e alla “santità della bandiera” (“ Il Dovere” del 15 maggio 1866), alla comunità nazionale, appunto, quale base indispensabile di un armonioso sviluppo dell’umanità tutta intera. In un generalizzato e ripetitivo sottolineare il “decoro della nazione”, l’”onore del paese”, la “gloria della bandiera”.

Ci occupiamo anche di luoghi comuni della medicina e della salute, molto in voga in questi periodi, di Covid e quasi post-Covid e il prof. Pasquale de Bonis, neurochirurgo di Ferrara elenca espressioni e frasi-fatte molto curiose: da “medicina naturale” a “dimagrire mangiando” da “operare senza bisturi” alle “protesi innaturali”, svelando retroscena e aneddoti.

Come è possibile superare i luoghi comuni nel linguaggio giornalistico?

Usando un linguaggio semplice e scorrevole, non semplicistico e povero, ma adatto alla narrazione che si sta facendo. Nel volume indico due esempi di bellezza espressiva: un inizio di articolo, come si dice in gergo un “attacco” sulla morte della sorella di Albertone di Gloria Satta per Il Messaggero, e un esempio di testo che diventa quasi poesia, partendo dai numeri e dalle statistiche, di Paolo Di Stefano per il Corriere della Sera. Parlare e scrivere senza cadere o indulgere nei luoghi comuni si può, l’importante è tenere la barra dritta. Accipicchia, questo è un luogo comune. Nessuno è perfetto.

Fabrizio Binacchi, giornalista e direttore della Sede Rai per l’Emilia Romagna, è stato direttore del Centro di Produzione Rai di Milano e per 15 anni docente a contratto di Teoria e tecnica del linguaggio televisivo al Master di Giornalismo dell’Università di Bologna. Ha cominciato la professione alla Gazzetta di Mantova, dove ha lavorato fino all’ingresso in Rai, al Tg1 come redattore economico sindacale, conduttore al Tg1 Mattina, caposervizio alla redazione politica e caporedattore della fascia Tg1 delle 13.30. Ha condotto il Tg1 13.30 e due edizioni di Linea Verde su Raiuno. Nella TGR è stato caporedattore di coordinamento, caporedattore regionale a Bologna, caporedattore centrale responsabile del Lazio e ha curato il settimanale Ambiente Italia in onda da Torino su Raitre. Ha collaborato con Il Giorno, Gazzetta di Mantova, Gazzetta di Reggio, Gazzetta di Modena, Nuova Ferrara, l’Allevatore, l’Informatore zootecnico e veterinario, Terra e Vita, l’Agricoltore Bresciano. Ha scritto per Voce di Mantova, Corriere Romagna, Affaritaliani.it e Pensalibero.it. Ha pubblicato: Benedetta Politica (Lativa Edizioni, 1992), Creative Note Book (Diabasis Editore, 2004), Bambini di ieri, bambini di oggi (2007) e Le città della cultura (2016) per Minerva Edizioni.

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