Il primo luglio 2004 moriva, a 80 anni, Marlon Brando. Ma il cinema lo mantiene vivo, reale, presente. C’è da chiedersi, semmai, se quel suo modo di essere, la sua fisicità, la sua imbronciata, scontrosa bellezza, la sua ferocia fragile abbiano ancora cittadinanza, tra i modi contemporanei di affascinare. La risposta è: sì. Rivederlo ancora oggi mette i brividi. E c’è da chiedersi se qualcuno abbia ereditato il suo carisma, la sua arte di squassare l’anima dello spettatore anche soltanto con un silenzio. La risposta è: no. Marlon Brando è don Vito Corleone, immenso, carismatico, minaccioso nel “Padrino”. È giovane, bellissimo, canottiera e addominali, in “Un tram che si chiama desiderio”. È lo scaricatore di “Fronte del porto”. È il “Selvaggio” a cavalcioni sulla sua Triumph, una moto che continuerà ad amare, anche dopo il film. Lui, giacca di pelle e blue jeans. Eroe moderno, il primo, l’unico. Le mille contraddizioni di un uomo non facile, che ebbe il coraggio di rifiutare l’Oscar vinto per “Il padrino” in segno di protesta contro le discriminazioni sui pellerossa. Lui che ha odiato il cinema, e che ha definito gli anni dedicati ai film come buttati via. Per fortuna, in quel buttarsi via, ci ha lasciato quelle perle che sono i suoi film. È stato l’attore che ha rivoluzionato Hollywood. Tutti gli attori che lo hanno preceduto, se guardi lui, diventano di colpo vecchi. Con la sua violenta fragilità spazza via il sex appeal di Cary Grant, di Clark Gable, di Laurence Olivier. Lui sa di sale, di sudore, di olio da macchine, di vento.