Migranti e Cei: ‘Aiutiamoli a casa loro’

‘Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza’. È quanto scrive la Cemi, commissione episcopale della Cei per le migrazioni, nella lettera alle comunità cristiane ‘Uscire dalla paura’, che in qualche modo aggiorna a 25 anni di distanza la lettera precedente, ‘Ero forestiero e mi avete ospitato’, pubblicata nel 1993.

Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità,  premette il documento Cei, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Inoltre, siamo consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese.

Non solo, invitando a non chiamare gli immigrati ‘extracomunitari’ o ‘clandestini’, perché ‘termini denigratori’, la Cei chiede alla politica azioni forti contro i trafficanti di uomini e riconosce anche che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente. Insomma, anche la Commissione episcopale della Cei per le migrazioni invita ad aiutare i migranti a casa loro.

Ma neanche li convinceremo a restare a casa loro, aiutando le loro economie a svilupparsi. Nella logica perversa e crudele del sottosviluppo e della emigrazione, più crescita significa, infatti, più e non meno migranti. Non tutti gli 800 milioni di lavoratori che l’Africa subsahariana produrrà entro il 2050 sbarcheranno in Europa, ma molti sì. E l’Europa tutti pensionati, niente bambini, del resto, ne ha bisogno. Meglio convincersi fin d’ora che le risorse è più opportuno impiegarle per gestire flussi inevitabili e garantire benefici reciproci ai migranti e ai paesi che li accolgono.

C’è una differenza fondamentale, infatti, fra i 3 miliardi di euro che l’Unione europea ha destinato a Erdogan, perché fermi le ondate migratorie dal Medio Oriente, e i 3 miliardi di euro appena destinati ad aiuti economici per i paesi africani.

I soldi servono a Erdogan per fare il poliziotto e il carceriere, fermando i migranti, imprigionandoli, respingendoli con i metodi che ritiene più adatti. Quelli per i governi africani servono ad alimentare opportunità di sviluppo e di occupazione, fornendo ai potenziali migranti alternative per restare a casa. Il metodo Erdogan è crudele e inaccettabile, sotto il profilo etico e democratico. Il metodo scelto con il fondo europeo per l’Africa è umanitario e solidale, pienamente in linea con i valori fondanti della Ue.

 Il problema è che il primo, almeno a breve termine, funziona e ha fermato, per ora, i migranti. Il secondo, purtroppo no e l’esperienza storica dice che risulterà in un aumento dei migranti.

Può sorprendere, ma il punto è semplice: non sono i poveri, i poverissimi, i disperati ad emigrare, sono quelli che hanno qualche risorsa e l’immaginazione necessarie per tentare l’avventura. Tutto è relativo e le definizioni vanno applicate al contesto cui si applicano: chiarito questo, a migrare sono quelle che, nel contesto africano, possiamo chiamare le classi medie emergenti. Più sviluppo, più reddito, più classi medie, più migranti.

Michael Clemens, che ha steso un rapporto per il Center for Global Development di Washington, spiega che, fino a quando un paese non arriva ad un reddito annuo pro capite equivalente a 10 mila dollari l’anno, la crescita economica, dicono le serie storiche di dati, non incide sulla tendenza ad emigrare. E’ una soglia alta. Ai ritmi attuali di sviluppo, il 20 per cento dei paesi più poveri al mondo la raggiungerebbe nel 2198. Se gli aiuti riuscissero (assai improbabile) a raddoppiare questo ritmo, la soglia verrebbe toccata nel 2097. In altre parole, gli aiuti allo sviluppo inciderebbero davvero se fossero molto consistenti e proiettati su più generazioni.

Ottomila dollari a testa è – oggi – il reddito annuo in Marocco o in Ucraina. In Nigeria sono 6 mila. In Eritrea, 1.441. Ma i flussi non seguono la classifica dei redditi. Clemens registra che i paesi con un reddito pro capite fra i 5 e i 10 mila dollari l’anno hanno tassi di emigrazione tre volte superiori a quelli che stanno sotto i 2 mila dollari. A sorpresa, paesi con tassi di disoccupazione giovanile sopra il 90 per cento hanno meno facilmente migranti di quelli che non superano il 70 per cento.

Come mai? Si può dire che, per avere speranza, bisogna avere almeno qualcosa in mano. Dal punto di vista di una famiglia africana intrappolata nel ciclo del sottosviluppo, l’emigrazione è una forma di assicurazione, perché diversifica i redditi e le opportunità. E, insieme, un investimento, con un alto costo iniziale, ma che può fornire un flusso di benefici futuri. Tutto questo richiede un minimo di risorse. Una maggiore crescita, aumentando queste risorse, fa crescere, almeno nel breve-medio periodo, la spinta ad emigrare. I corollari sono indigeribili: minore mortalità infantile, nel breve periodo, significa una maggiore pressione demografica.

 Per ora meglio regolarli, destinando i soldi ad approntare percorsi di formazione professionale e integrazione che attutiscano lo choc bilaterale delle migrazioni e le rendano un fattore di sviluppo anche per l’Europa.

 

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