Nuova scoperta nella lotta contro le leucemie della struttura di Ematologia e trapianto di midollo osseo dell’Azienda ospedaliera di Perugia diretto dal professor Brunangelo Falini, ordinario di ematologia dell’Universita’ degli Studi del capoluogo umbro, e dal suo collaboratore professor Enrico Tiacci. E’ stata pubblicata il 13 Maggio dalla prestigiosa rivista scientifica New England journal of medicine. Lo studio viene definito una “pietra miliare” nella terapia di precisione della leucemia a cellule capellute, cosi’ chiamata per la presenza di caratteristici prolungamenti, simili a capelli, sulla superficie delle cellule leucemiche, offrendo l’opportunita’ di controllo a lungo termine della malattia per tutti i pazienti che non rispondono piu’ alle terapie convenzionali. La ricerca – riferisce l’Azienda ospedaliera – e’ stata finanziata da un grant del Consiglio europeo della ricerca (Erc) vinto dal professor Tiacci, nonche’ dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc). Si tratta di un “virtuoso esempio” di ricerca accademica traslazionale possibile per la cooperazione tra il Dipartimento di Medicina e chirurgia dell’Universita’ degli Studi di Perugia, l’Azienda Ospedaliera di Perugia e il Residence “Daniele Chianelli” che ha ospitato i pazienti in terapia.
“Tutto va fatto risalire al 2011- commenta Falini – quando il nostro gruppo ha scoperto, e pubblicato sempre nel New England Journal of Medicine, che la leucemia a cellule capellute si sviluppa in seguito ad una mutazione che colpisce selettivamente un gene chiamato Braf. Da qui a pensare che un inibitore di Braf mutato, chiamato vemurafenib e gia’ in uso per il melanoma maligno metastatico, poteva essere efficace anche nella leucemia a cellule capellute resistente ai chemioterapici convenzionali il passo e’ stato breve. I risultati del nostro studio clinico condotto in Italia con il solo vemurafenib e pubblicati ancora nel New England journal of medicine nel 2015 hanno dimostrato una notevole attivita’ del vemurafenib, con il 91% di risposte di cui il 35% complete in pazienti resistenti alle terapie convenzionali”.