‘Parthenope. Inferno celeste’, recensione di Arianna Trapani

Silvia Campese
PARTHENOPE.
INFERNO CELESTE.
I molteplici volti dell’umanità
Napoli, Phoenix Publishing, marzo 2020
Collana Partenope
L’idea è buona, anche se non proprio inedita. Dipingere un affresco storico del
secolo breve
, così
denso di eventi epocali, attraverso le vicende di una famiglia napoletana narrate sottoforma di
racconti e memorie di tre delle sue componenti femminili, quindi in ordine solo a grandi linee
cronologico. L’efficacia stilistica dei brani narrativi a carattere più realistico e dei dialoghi diretti
sono a mio avviso il secondo pregio del libro. Purtroppo l’elenco dei
pro
si ferma qui.
Dopo essere arrivati in fondo alle cento quarantanove pagine e aver chiuso il libro, l’impressione
generale che per prima affiora è quella di aver letto una scaletta di lavoro, un progetto o se vogliamo
un canovaccio. Non la storia, ma una sua descrizione, in alcuni punti rimasta allo stadio di abbozzo
in altri sviluppata in ogni dettaglio.
Questa strana sensazione deriva a mio parere da due ordini diversi di problemi, di stile e di
contenuto. Sono troppe, troppo eterogenee e per giunta difficilissime da maneggiare le forme
narrative incastrate a forza l’una nell’altra: si va dal romanzo ideologico a tema di stampo russo alla
saga familiare di tradizione tedesca fino al flusso di coscienza anglosassone. È un romanzo? Una
sequenza di racconti collegati? Un’inchiesta di antropologia culturale in forma narrativa? Non l’ho
capito e la disparità dei riferimenti che le pagine lette suscitavano testimoniano del fatto che non
sono riuscita a trovare il bandolo della matassa stilistica. Alcune “stonature” lessicali e oscurità
sintattiche – per non parlare di errori banali che si potevano correggere con un minimo di lavoro
editoriale come la “pace mutilata” al posto della “vittoria mutilata” – hanno accentuato l’effetto
complessivo di mancata messa a fuoco dei contenuti.
I contenuti sono appunto il secondo problema. Eccone alcuni, e sto citando solo i principali: la
corruzione morale del carattere degli italiani, e dei napoletani, di cui sono responsabili il fascismo
prima e la camorra poi; la violenza, atavica ed endemica, contro le donne, bambine e adulte, proprio
nell’ambito più intimo degli affetti familiari; il vuoto ideale e la rassegnazione sociale che hanno
occupato gli spazi lasciati vacanti dal fallimento delle speranze di palingenesi totale della sinistra
più convinta; la sfiducia nel valore dell’educazione e dell’impegno che ha infettato, con buoni
motivi, le generazioni più giovani del nuovo millennio. Stiamo parlando di temi di enorme
rilevanza, su cui urge senz’altro un’attenzione e una riflessione collettiva. È un peccato che
appaiono affastellati, quasi contro la loro stessa volontà, in questo girandola di stili e spunti
narrativi, di direzioni indicate e non seguite.
Un esempio indicativo delle numerose perplessità di cui parlo mi sembra il primo capitolo della
seconda parte, Transizione, in cui Maria, che occupa lo spazio maggiore tra le donne della famiglia,
ha il ruolo di protagonista. È la nipote Justine che rievoca i tanti momenti in cui la zia ha cercato di
trasmettere, a lei e alla cugina Carmela, le proprie storie ed esperienze di vita e di valori, ma è allo
​stesso tempo Maria stessa che racconta in forma diretta la scelta centrale del suo impegno di vita.
Forma diretta che consiste nella lunghissima trascrizione, ben quindici pagine, della registrazione di
una riunione datata 1978 della cellula clandestina di cui era allora responsabile. Scelta narrativa
potenzialmente molto coinvolgente, a patto che si riesca a tradurre nella pagina scritta un espediente
efficace principalmente nel cinema e per tradurlo era necessario qualcosa di più della trascrizione
completamente priva di quei piccoli elementi di contesto che aiutano l’immaginazione a integrare
quello che manca, ossia le voci, l’ambiente fisico, il sapore dell’epoca. Io sono abbastanza vecchia
da aver riconosciuto le locuzioni e gli argomenti tipici di quei personaggi e di quelle situazioni, ma
l’ho fatto con una certa fatica e dopo un iniziale disorientamento. Temo che per un lettore più
giovane, e intendo anche più che quarantenne, il realismo e il gusto di tutto il capitolo vada perduto
e che questa possa diventare una lettura molto faticosa.
In fin dei conti però, mi è rimasta la convinzione che questo libro avrebbe potuto, e possa ancora,
avere un senso importante che vale la pena far arrivare ai lettori. Vorrei perciò invitare la coraggiosa
– per il peso specifico del soggetto e le intenzioni di sperimentazione narrativa – autrice a
considerarlo un proprio
Fermo e Lucia
e a non scartare la possibilità di riprenderlo in mano e
lavorarci sopra.
Arianna Trapani

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