PAT – La toccante testimonianza di Lidia Maksymowicz, deportata – da bambina – ad Auschwitz Birkenau

Il quarto incontro di Living Memory è stato dedicato alla testimonianza di Lidia Maksymowicz, deportata ad Auschwitz Birkenau quando non aveva ancora compiuto tre anni. “Una donna della generazione ‘dei bambini della guerra’, ha esordito Lidia che ha trascorso tre anni nel “blocco dei bambini” subendo diversi esperimenti medici come, per esempio, l’inoculazione di virus e di soluzione salina da parte del dottor Mengele sfuggito, per altro, al giudizio delle sue atrocità. La signora Lidia, nata in Bielorussia, così ricorda quel medico e antropologo noto per i crudeli esperimenti medici e di eugenetica: “Tutti i bambini sapevano chi era Mengele e ne avevano terrore. Considero una missione raccontare questa storia, lo devo a quelli che non ce l’hanno fatta e sono morti”.

La testimonianza da Cracovia di Lidia Maksymowicz è stata seguita da centinaia e centinaia di studenti trentini, piemontesi e pugliesi nonché da tutti gli studenti del Treno della Memoria collegati in diretta.
Lidia Maksymowicz ha cominciato a raccontare i dettagli dell’entrata nel campo di sterminio di Auschwitz Birkenau, ponendo l’attenzione sulla storia così incredibile da poter sembrare inventata. Ha fatto riferimento, fra l’altro, alle masse enormi di capelli tagliati alle donne che venivano rasate e umiliate moltissimo anche nella loro femminilità. Bastonate e separate dai loro figli anche piccolissimi (come lei) buttate nelle baracche quando non venivano direttamente avviate alle camere a gas. “Anche raccontandovi questi dettagli, non potete però immaginare l’atmosfera del campo. Ho vissuto là tanti e tanti mesi e non capivo perché ero lì. Avevo paura delle persone in divisa e delle persone in camice bianco”. A proposito del dottor Mengele ha sottolineato: “Io sono stata individuata subito come ‘materiale’ per il dottor Mengele. In quella baracca c’era tanti bambini messi su dei ripiani che fungevano da letti. Prima di arrivare là avevo già vissuto condizioni difficile vivendo nella foresta della Bielorussia. Lì, nella baracca succedevano cose terrificanti. Un odore terribile, non ci si poteva lavare, tantissimi insetti che riempivano le pareti e tutti noi. Topi e sporco dappertutto. L’impatto è stato difficilissimo e dovevo subito imparare i comandi della Kapò. Partecipare agli appelli con il freddo e la fame è stato molto difficile. Per mangiare al mattino solo pane nero e acqua o un ‘caffè’ fatto di erbacce. Io, quando entravano gli assistenti del dottor Mengele, per scegliere i bambini per gli esperimenti di quel giorno, mi facevo piccola, piccola e mi nascondevo sotto il più lontano ripiano. Ma non funzionava sempre. Ci mettevano gocce negli occhi e quel liquido ci faceva malissimo, ci veniva la febbre alta. Quando un bambino non tornava più, noi ci impossessavamo delle povere piccole cose. I laboratori di esperimenti erano vicino ai forni crematori. Venivano iniettati veleni a noi piccoli per vedere le reazioni e, quando qualcuno moriva, venivano fatte le autopsie sui piccoli corpi”.
La signora Lidia ha anche raccontata come la sua mamma, 22enne, faceva l’impossibile rischiando tantissimo per portare a lei un pezzo di cipolla o di pane che qualche cittadino esterno ad Auschwitz, di nascosto, lasciava alla donna che, insieme alle compagne, lavorava nel letto del fiume, scavando sotto l’attento controllo dei carcerieri del campo di sterminio. “Io sono una delle poche sopravvissute. Lì sono morti più di 200.000 bambini su un milione di persone. Una storia incredibile! Il mio mondo era la baracca, il ripiano, la paura. Cercavo di adattarmi alle circostanze probabilmente questo mi ha permesso di sopravvivere. Tutti i bambini sapevano chi era Mengele e ne avevano il terrore”.

Lidia Maksymowicz ha poi raccontato che dopo esser stata liberata dal campo di sterminio i bambini sono stati messi in altri campi e, questa volta, però sostenuti dalle ragazze polacche che facevano le scout e lì, la piccola bambina, ha avuto le prime carezze e non è più stata trattata solo come numero. “Del giorno in cui sono arrivati gli uomini con le divise diverse e con una caratteristica stella rossa mi ricordo che loro ci hanno dato una tazza di caffè e latte caldo con il pane ricoperto di margarina, un sapore che non conoscevo. Come altri bambini, in quei giorni, sono stata presa e portata in una famiglia polacca e i soldati hanno detto ‘prendete questa bambina perché sua mamma è morta’. In quella casa ho visto per la prima volta un letto e mi hanno fatto per la prima volta un bagno e avevo anche paura di questo. Poi mi sono ammalata di tubercolosi, avevo grossi problemi alla pelle e mi era rimasta la diarrea che ho sempre avuto nel campo. Tutto quello che ho trovato in quella casa mi è sembrato un bene inimmaginabile. Psicologicamente ero distrutta ma quelle persone che mi hanno accudito erano importantissime. Nel 1947, finalmente, ho smesso di essere un numero e quei genitori adottivi mi hanno dato anche un cognome”.

Lidia Maksymowicz ha raccontato come sui bambini si provassero tanti vaccini. Ha poi riportato alla memoria come, finalmente, ad un certo punto ha reincontrato la mamma quando aveva più o meno diciotto anni. “Avevo sul braccio il numero che nascondevo con un cerotto per non farlo vedere. Ad un certo punto da Amburgo, dopo tante tante, tantissime ricerche, hanno trovato una donna che aveva il mio stesso numero. Hanno fatto un servizio televisivo su di me in Polonia e così è successo che ho ritrovato la mamma. La prima bambina che ha ritrovato la madre. Hanno organizzato l’incontro a Mosca. Era la primavera del 1962, non c’era un giornale, una rivista, una televisione dove non si parlasse di me e di questa storia, del ritrovamento della mia mamma. Quando sono scesa dal treno c’erano migliaia di persone che speravano, anche loro, di ritrovare i loro familiari. Tanti piangevano, era un momento molto commovente anche per loro. Io avevo in mano un mazzo di rose bianche. La mamma è svenuta e poi ci siamo viste e riabbracciate, di fatto, in albergo. Sono stata ricevuta in Cremlino dalle autorità di allora e mi hanno offerto il viaggio in Pietroburgo. La mia mamma mi ha spiegato tante cose delle quali non sapevo nulla. Lei mi cercava da anni ma la Cortina di Ferro impediva che le informazioni passassero da Ovest a Est (la mamma era ad Amburgo). Ho vissuto due mesi a Mosca ma poi sono tornata in Polonia. Mia mamma, purtroppo, è morta dopo poco a settant’anni”. Lidia Maksymowicz ha concluso la sua storia con un appello ai giovani: “Apprezzate i tempi e il luogo in cui vivete. Ricordatevi che il futuro del mondo è nelle vostre mani di giovani e ricordatevi di non ripetere mai questa orribile storia”.

Tantissime le domande degli studenti arrivate a Denise Rocca, giornalista che coordina e modera tutte le iniziative del Living Memory – Treno della Memoria. Con la giornalista anche il direttore della Fondazione Museo Storico di Trento Giuseppe Ferrandi che, a fine testimonianza, ha posto l’accento sul significato di quanto accaduto. “La testimonianza è fondamentale come prova storico. Un aspetto non secondario sono le condizioni in cui sono state accertate le responsabilità e fatti i processi, sono da considerare in quel contesto del dopoguerra. Ci sono tantissime responsabilità”.

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