L’esecutivo Meloni ha presentato una proposta di riforma costituzionale che incide sulla forma di governo: un modello italiano di premierato fondato sull’elezione diretta.
Il governo Meloni é vincolato dal programma sul quale la coalizione di centrodestra ha ottenuto il voto e il programma prevedeva il “presidenzialismo”. La premier “doveva”: adempiere al mandato che ha avuto dai cittadini; sono loro che l’hanno incaricata di riformare il nostro sistema politico con due punti-luce: la coerenza di mandato – cioè stop a ribaltoni e gabinetti tecnici – e la stabilità dei governi, anomalia tutta italiana. Ciò che ha fatto.
Riformare le nostre istituzioni in direzione presidenziale non è un “affronto” all’attuale inquilino del Quirinale, Sergio Mattarella. Non c’è nella riforma, ma anche se in futuro diminuissero i poteri del Colle, non ci sarebbe alcuna mancanza di riguardo verso il capo dello Stato: fosse così la Carta del ‘48 non si potrebbe cambiare mai per non turbare i titolari pro tempore delle alte cariche. La riforma, peraltro, entrerebbe in vigore al termine del bis di Mattarella. Il quale – lunga vita e salute al Presidente – starà al Quirinale per 14 anni: questo é il vero vulnus, ultra-presidenzialista e di stampo monarchico, alla Costituzione. Imbarazzante tema, quello del doppio mandato, sul quale i costituzionalisti progressisti – quelli della Carta più bella del mondo – stanno muti.
La riforma abolisce la categoria dei senatori a vita: questa modifica fa registrare critiche per amore di polemica. In verità, anche i senatori a vita sono espressione di un retaggio “regale” che contraddice i principi della Costituzione; per di più, sono una presenza che squilibra la composizione del Senato, i cui membri si sono ridotti di numero, dopo il “taglio” dei parlamentari. Secondo voi perché la Carta prevede i senatori a vita? Semplice: perché cento anni dopo lasciò inalterato lo Statuto Albertino del 1848, esteso allo Stato unitario e rimasto in vigore anche durante il ventennio mussoliniano. Eccolo qua l’articolo 33 dello Statuto:
”Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di 40 anni compiuti, e scelti nelle categorie seguenti…Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria…”. Al numero 20 della vecchia norma c’è la traccia letterale della filiazione della Costituzione vigente dal suo antenato Statuto: “avere illustrato la Patria”. L’articolo 59 dell’attuale Costituzione, infatti, riserva alla nomina presidenziale di senatore a vita “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Appunto “illustrato la Patria”, lessico identico: vestigia del tempo in cui “Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario secondo la legge salica”, come recitava l’articolo 2 dell’Albertino. I presidenti della Repubblica hanno ereditato questo potere regio, ovviamente in forma ridotta. I cinque senatori della Repubblica nominati dal Capo dello Stato sono a vita come i senatori nominati dal Re che allora sceglieva l’intero Senato del Regno. Un evidente anacronismo: la riforma vuole superarlo, ma si riesce a criticare persino questa scelta che dovrebbe essere condivisa.