Con l’approvazione dell’articolo 5 del Ddl Casellati, quello che introduce appunto l’elezione diretta del premier e il principio del premio di maggioranza, l’Aula del Senato ha approvato nelle scorse ore – con l’assenza dei senatori delle opposizioni usciti dall’Aula per protesta – il cuore della “madre di tutte le riforme”. Il via libera di Palazzo Madama è previsto per il 18 giugno, dopodiché il testo passerà alla Camera. Come tutte le riforme costituzionali, dopo il primo doppio via libera è necessario un secondo sì di entrambe le Camere in seguito ad una pausa di almeno tre mesi. Ma visto che in seconda lettura il testo non è più emendabile, questo primo passo è fondamentale per capire su quale riforma si dovranno esprimere gli italiani con il probabile referendum confermativo.
Un via libera tra continue tensioni, interruzioni e scontri tra maggioranza e opposizioni, che, senza raggiungere il livello di scontro registrato alla Camera sull’Autonomia, ha visto i senatori spesso perdere la calma e lasciarsi andare a cori e insulti da stadio. Al netto della cronaca, a fine giornata, la maggioranza può guardare al traguardo in Senato. Con il voto finale sul premierato previsto “per martedì prossimo, quando ci saranno alle 15.30 le dichiarazioni di voto e il pronunciamento finale dell’Aula”, come ha sottolineato un compiaciuto presidente del Senato La Russa.
Un voto che ha visto i senatori del Pd, del M5S, di Avs e anche renziani e calendiani abbandonare per protesta l’Aula, dopo aver mostrato cartelli contrari, tra cui alcuni che richiamano frasi di Giacomo Matteotti come “Parlamentarmente”, “A me no”, ma anche “Bavaglio alla democrazia”, “Parlamento con il bavaglio”. Nel mirino i tempi contingentati per la discussione, ma soprattutto il merito della riforma che per le opposizioni rischia di minare l’assetto democratico, dando spazio a un premier che arriverà a limitare pure i poteri del capo dello Stato.
Elezione «a suffragio universale e diretto» del premier, che resta al potere per cinque anni grazie a un sistema elettorale che “garantisce” la maggioranza dei seggi in Parlamento e che non può essere rieletto dopo due mandati consecutivi. E, soprattutto, che può essere sostituito solo una volta nella legislatura, e solo se sarà lui stesso a decidere di passare la mano, da un parlamentare che fa parte della coalizione vincitrice delle elezioni. Tradotto: niente più governi tecnici e di larghe intese guidate da personalità non elette dai cittadini. Un ritocco della Costituzione mininal, visto che ad essere del tutto riscritti sono “solo” gli articoli 92 e 94 della Costituzione, ma l’effetto è quello di una vera e propria rivoluzione copernicana nel nostro sistema istituzionale.
“Continueremo a batterci fino alla fine per chiedere il ritiro di una riforma pessima, pericolosa, sbagliata, utilizzeremo tutti gli strumenti democratici che abbiamo per fermarli”, promette Francesco Boccia, presidente dei senatori del Pd. Non basta al dem avere ottenuto qualche ora di dibattito in più: “Hanno concesso tempi aggiuntivi -ribatte- ma non sono 60 minuti in più o in meno che cambiano 78 anni di storia”. Alessandra Maiorino dei 5Stelle rincara la dose, parlando di “una riforma costituzionale che stravolge completamente l’assetto costituzionale”. Il capogruppo di Avs in Senato, Peppe De Cristofaro, punta infine il dito contro le forze di governo “che vanno avanti a colpi di maggioranza, ignorando la crisi democratica messa in luce dall’astensionismo alle scorse europee”.
Perché se c’è un’indicazione uscita dalle urne europee è quella della chiusura, almeno per il momento, della porta per un possibile dialogo bipartisan pur auspicato da molti. Il rafforzamento di Giorgia Meloni da una parte e il successo del Pd guidato da Elly Schlein hanno cristallizzato il muro contro muro. La segretaria dem ha chiarito che finché c’è l’elezione diretta del premier, «che scolvolge gli equilibri istituzionali e svuota i poteri del Presidente della Repubblica», il Pd non è disponibile al dialogo.
Scintille si sono registrate nel pomeriggio dopo l’intervento del ministro Elisabetta Casellati che ha contestato all’opposizione un mero atteggiamento ostruzionistico: “Non parlate di dialogo se non c’è alcuna intenzione di sedervi al tavolo”, ha detto rivolta ai banchi di Pd, M5S e Avs. “Non accetto lezioni di democrazia da chicchessia -aggiunge- per una legge che non prospetta nessuna deriva autoritaria e nessuna lacerazione della carta costituzionale. Abbiamo mantenuto tutte le prerogative del capo dello Stato“, ha concluso contrariata dagli attacchi delle opposizioni.
Eppure il contributo critico dell’opposizione, magari nell’ottica della riduzione del danno, sarebbe auspicabile per migliorare la riforma. Elezione diretta a parte, la maggiore criticità è che non è chiaro con quale sistema si eleggerà il premier. In Costituzione si fissa solo il principio di «un premio da assegnare su base nazionale che garantisca la maggioranza dei seggi» ma non si stabilisce la soglia necessaria a far scattare il premio. La realtà è che la questione è stata demandata dal governo alla legge elettorale, ordinaria, per la contrarietà storica della Lega al ballottaggio nazionale, che pure è l’unico sistema in grado di garantire una maggioranza sicura nel rispetto dei paletti fissati dalla Consulta. E resta pure da risolvere, per stessa ammissione della ministra per le Riforme Elisabetta Casellati (Fi) e del relatore Alberto Balbini (Fdi), il nodo del voto degli italiani all’estero: ora è incanalato nella circoscrizione estero che elegge 4 deputati e 8 senatori, ma con l’elezione diretta uno vale uno e quei cinque milioni potrebbero sovvertire qualunque risultato.
La ministra Casellati ha anticipato la possibile soluzione per gli italiani all’estero: la “ponderazione” del loro voto, che in sostanza peserebbe meno di quello dei residenti. Ma per fare questo – è il parere di alcuni costituzionalisti – non basta la legge elettorale ma serve una previsione in Costituzione. Sempre Casellati ha avuto modo poi di prefigurare una soglia del 40% per far scattare il premio, al di sotto della quale scatterebbe il ballottaggio nazionale tra i primi due. Eppure, fa notare il Pd per bocca di Dario Parrini e lo ripete anche Pera, in tutti i Paesi dove c’è l’elezione diretta di una carica monocratica la soglia per il ballottaggio è al 50%. Portare l’asticella più in basso significherebbe costituzionalizzare l’elezione di un premier di minoranza in un periodo storico in cui, per di più, diminuisce la partecipazione al voto.
“Ho detto che avrei costruito la legge elettorale nel passaggio dal Senato alla Camera, quando ci sarebbe stata una ossatura della riforma, per non dare paletti rigidi a un dialogo che immaginavo fosse reale”, ha detto in Aula sempre Casellati, replicando alle opposizioni che continuano a porre il problema della mancanza di una previsione di legge elettorale da associare al premierato.
Forse ci sarà spazio per sciogliere questi nodi alla Camera, forse no. In ogni caso il referendum confermativo – quasi certo, visto che difficilmente la riforma verrà approvata con più di due terzi dei voti – sarà un passaggio delicato per Meloni. Perché se è vero che le urne europee hanno consegnato un centrodestra più solido (47,4%), la somma delle opposizioni raggiunge il 47,9%: divise su quasi tutto, sul no al premierato sono unitissime. Un dato su cui riflettere al momento giusto, sondaggi alla mano, per decidere il quando della consultazione popolare: se a distanza di sicurezza dalle prossime politiche, e dunque nel 2026, o addirittura dopo, nel 2028.