Processo trattativa Stato-mafia: assolto Marcello Dell’Utri

La corte d’Assise d’appello di Palermo ha assolto gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri,   accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. Erano stati tutti condannati in primo grado nel processo ribattezzato ‘trattativa Stato-mafia’.

Per il resto sono state dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca, mentre è stata ridotta la pena al boss Leoluca Bagarella.

Confermata invece la condanna del capomafia Nino Cinà.

Il processo d’appello era iniziato il 29 aprile 2019. Durante il dibattimento l’imputato Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, accusato di calunnia aggravata all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa, è uscito di scena per prescrizione.

Per l’imputato più illustre, Marcello Dell’Utri, è invece arrivata l’assoluzione “per non aver commesso il fatto“.

Smontata quindi l’accusa sostenuta dai sostituti procuratori generali, Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che avevano chiesto la conferma della sentenza di primo grado (28 anni a Bagarella, 12 a Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà, 8 a De Donno e Ciancimino).

Secondo i pm, il dialogo che gli ufficiali del Ros, tramite i Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per interrompere la stagione degli attentati avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato.

Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi, sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41bis e un alleggerimento nell’azione di contrasto alla mafia.

Il ruolo di Mori e i suoi, dopo il ’93, sempre nella ricostruzione dell’accusa, sarebbe stato assunto da Dell’Utri che nella sentenza di primo grado venne definito “cinghia di trasmissione” tra i clan e gli interlocutori istituzionali.

Le prime parole di Marcello Dell’Utri dopo l’assoluzione sono di incredulità: “Onestamente non me l’aspettavo, ma la sognavo“.

“L’assoluzione – ha aggiunto – è la migliore risposta a tutti quelli che spargevano odio. Processo mostruoso, averlo debellato è la prova dell’esistenza della democrazia. Finalmente. Sono sempre stato tranquillo, altrimenti non sarei ancora qui”.

E sull’ipotesi di un ritorno in politica: “Non scherziamo – ha concluso -, preferisco i miei libri”.

Oltre a Dell’Utri c’erano anche altri indagati:

  • Leoluca Bagarella: i giudici hanno riqualificato il reato in tentata minaccia a Corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte: per questo motivo gli è stata ridotta lievemente la pena, da 28 a 27 anni;
  • Nino Cinà: confermati i 12 anni;
  • Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno: per i tre ex ufficiali del Ros c’è stata l’assoluzione con la formula perché il “fatto non costituisce reato”;
  • Giovanni Brusca: confermata la prescrizione delle accuse.

La presunta trattativa Stato-mafia sarebbe nata per porre fine al periodo stragista, iniziato con l’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima nel marzo 1992 e proseguito con gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In quella stagione sarebbero cominciati gli incontri riservati del comandante del Ros, Mario Mori, e del suo braccio destro Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino. Da quegli incontri, secondo la Procura di Palermo, sarebbe partita la cosiddetta ‘trattativa’ tra lo Stato e la mafia.

I due ufficiali hanno sempre sostenuto che quella era un’attività investigativa, che trova ora riscontro nella sentenza d’appello, con cui si mirava a fermare le stragi e a catturare Totò Riina.

Il primo grado del processo, cominciato il 27 maggio 2013, si è concluso il 20 aprile 2018 con condanne molto severe. Per quei giudici la “trattativa” c’era stata ed era illegittima perché i protagonisti erano uomini delle istituzioni e soggetti che “rappresentavano l’intera associazione mafiosa”.

Su questa tesi accusa e difesa hanno ingaggiato nel giudizio di appello, cominciato il 29 aprile 2019, un confronto molto serrato. E stavolta il verdetto è ribaltato: c’erano le minacce della mafia ma non la “trattativa”.

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