Emozioni a fior di pelle per ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’ di Dale Wasserman al Bellini di Napoli.
Dall’omonimo romanzo di Ken Kesey, nella traduzione di Giovanni Lombardo Radice, con il pregevole adattamento di Maurizio de Giovanni e la eccezionale regia di Alessandro Gassman che firma un grande spettacolo. Il lavoro, di rara intensità, vede in scena innanzitutto Daniele Russo, poi Elisabetta Valgoi ed ancora: Mauro Marino, Giacomo Rosselli, Emanuele Maria Basso, Alfredo Angelici, Daniele Marino, Gilberto Gliozzi, Gaia Benassi, Davide Dolores, Antimo Casertano, Gabriele Granito. Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini Tre ore di spettacolo di alta qualità, da seguire senza perdere per un solo attimo il filo: impossibile distogliersi, l’attenzione rimane perennemente alta, sino alla fine, salutata sempre e comunque, in chiusura, da scroscianti applausi.
Con questo ennesimo successo di pubblico e di critica, il Bellini testimonia la qualità della sua proposta, forte dell’interesse immancabile di un pubblico vasto e di qualità, sensibile alla sua nuova e più che qualificata produzione.
Un trionfo per Alessandro Gassmann regista, abile architetto di un lavoro d’eccezione reso ancora più intenso dalla lingua napoletana che si integra armoniosamente con quella italiana, rafforzandone la presa sulla platea zittita dall’assoluto coinvolgimento.
Superata con assoluta capacità non comune, peraltro alquanto vicina alla genialità, la complessità dei temi e delle situazioni che contraddistingue l’opera ispiratrice di un film mito.
Parimenti intenso e riuscito è l’impegno di Maurizio de Giovanni che ha riscritto con equilibrio e grande umanità il meraviglioso testo di Kesey, trasferendo l’ambientazione in un manicomio partenopeo in una realtà drammaticamente forte, nella quale lo spettatore si sente partecipe del susseguirsi degli eventi ed esso stesso parte del gruppo di sventurati lì rinchiusi, in uno spazio temporale recente.
È palpabile ed a volte così intensa da poterla quasi toccare, la disperazione dei personaggi, etichettati come pazzi, ma in effetti molto più sani nel complesso dei loro ragionamenti dei ‘padroni del loro destino, incominciando dalla suora implacabile, personificazione della logica utilitaristica dell’essere, carceriera e prigioniera essa stessa delle categoriche ed ottuse convinzioni che condizionano fino a privare la vita della vita stessa I poveri sogni dei rinchiusi diventano le speranze del pubblico che, pur conoscendo il romanzo e la fine segnata dei personaggi e soprattutto del protagonista, spera fino all’ultimo nel suo sé più profondo e recondito, in una soluzione differente e giusta. Pur se in una realtà in cui di giusto non c’è niente Il tema in scena è forte e sofferto, laddove il palcoscenico si trasforma efficacemente in terreno di scontri violenti. In quella ‘Casa di cura’ meta dei più fragili alla ricerca di un aiuto troppo spesso deluso quando non addirittura negato, proprio come viene calpestato e pure negato il diritto imprescindibile al rispetto per il paziente, per l’essere umano, per la sua capacità di scelta, per il suo diritto a chiedere che vengano considerate e soddisfatte le sue richieste legittime, le sue aspettative più ovvie. Luogo dominato dall’ ansia, generata più dalla costrizione che dalla patologia, menti ferite dall’ottusità dei ‘sani’, incomprese e disperate, martoriate dalle pressioni e dai divieti ingiustificati e per questo forieri di atrocità. Menti offuscate dal dolore per le tante richieste d’amore rimaste inascoltate.
Per la trasposizione è stata scelta Napoli – soluzione ideale per la lingua che si presta ad un uso intenso ed efficace delle sonorità e delle musicalità innate – ma il lavoro avrebbe potuto essere ambiento in qualsiasi altro luogo del mondo, perché ovunque la rigidità vuole prevalere sulla passione e rendere vano ogni desiderio di felicità, annientando l’individualità, dunque emarginando le menti diverse e per questo ritenute addirittura pericolose, come mine vaganti che vanno disinnescate. Parimenti, la lobotomia elimina il rischio costituito dal ‘diverso’, inibendo il funzionamento del suo cervello.
In una logica in cui i deboli sono destinati a perire, gli sconfitti non hanno alcun scampo e la morte è la soluzione più dignitosa Daniele Russo ed Elisabetta Valgoi rappresentano con vigore e determinazione l’uno passionale, l’altra di rigidità disumana, i poli estremi dello scontro assoluto tra un ‘insano’ più che mai vero ed umano, con la sua fantasia smarrita e la sua ingenua e pressante necessità di affetto – ed intorno a lui i suoi compagni sventurati capaci di struggenti invenzioni e fonti di inaspettate riflessioni e sapienze – ed una suora robotica nella sua agghiacciante spietatezza, direttrice inflessibile e ottusa rappresentante di regole crudeli, delle quali diviene incarnazione oltre che assertrice diabolicamente determinata.
Colpisce l’affiatamento di tutto il corpo teatrale, unito nel riuscito sforzo di fornire una straordinaria prova, così come uniti sono Dario Danise e compagni sulla scena, nonostante le avversità ed il tragico epilogo.
Lo spettacolo risulta appassionato, commovente ed anche divertente, nonostante l’innegabile tragicità di base e conclusiva, eccellente per la sua estetica dirompente e per la sua eccezionale carica emotiva e l’impegno sociale che obbligano a riflettere su realtà a noi vicinissime eppure considerate tutt’oggi ancora tanto distanti e altre.
Teresa Lucianelli