Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Staglianò la recensione su ‘Easy to remember’ in scena all’Off/Off Theatre fino al 23 dicembre.
‘C’è sempre stato l’inverno nella mia gola’, questo aforisma sibillino segna l’inizio di ‘Easy to remember’, ultimo e tanto atteso lavoro del duo Ricci/Forte all’Off/Off Theatre di via Giulia a Roma. Parole queste che evocano un clima gelido ma anche l’autenticità lirica di una delle più grandi poetesse russe, Marina Cvetaeva.
Inverni di freddo e povertà sono quelli che ha vissuto Marina Cvetaeva. Durante l’inverno 1919-20 si trovò costretta a lasciare la figlia più piccola, Irina, in un orfanotrofio, e la bambina vi morì nel febbraio per denutrizione. Non smise però di relazionarsi e confrontarsi con scrittori, poeti e artisti, aspettando il suo uomo, Sergej Efron (impegnato al fronte con l’Armata Bianca) e innamorandosi contemporaneamente di altri uomini. In quegli anni di fame, guerre civili e morti, In Russia gli scrittori non rinunciarono alla loro arte; Marina Cvetaeva è costretta all’esilio, poi a un drammatico ritorno in patria. La solitudine forzata prima e la rassegnazione a una solitudine per scelta dopo, la condurranno inevitabilmente al suicidio. Un filo di cotone rosso avvolge la carrozzella che la immobilizzava La poesia come la vita sono un tormento ossessiva e violento di attenzione e si consumano entrambe con un eccesso pulsante di descrizione e di esposizione.
A lei si sono ispirati i due autori visionari che si sono formati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e alla New York University e rappresentano la scena italiana in tutta Europa con numerosi premi e attestazioni di merito.
La genesi e l’spirazione di questo lavoro sul femminile, interpretato da Anna Gualdo e Liliana Laera, è proprio la poetessa Marina Cvetaeva. Le parole lanciate in varie forme, proiettate, scagliate o consegnate al pubblico aprono in ‘Easy to remember’ un varco poetico sulla libertà individuale, sulle costrizioni della società e sul prezzo da pagare nel perseguire l’obiettivo di spezzare le catene e i vincoli determinanti per ogni forma di controllo sociale.
Ricci/Forte presentano ‘una donna fuori dall’ordinario, abbracciata esclusivamente dal cielo, che cresce isolata afferrandosi alla memoria, come un fatale testamento in bottiglia da affidare alla Storia’. Realizzano una sinergia che non vuole essere sintetica, ma complessa, tra due elementi fondamentali: la presenza scenica del corpo e delle parole. La dimensione è onirica e lucida, una riproduzione della realtà quasi perfetta nella sua spietata rappresentazione.
Una donna in carrozzella, russa di origini ma cittadina del mondo, Marina Cvetaeva (Anna Gualdo), sembra immobilizzata dalla vita ma grazie alle parole riesce a sopravvivere. Si presenta con un lungo e a volte violento monologo, mentre dall’altra parte un’infermiera (Liliana Laera) ribalta una bara da cui escono dei fiori gialli. L’infermiera ha una mano tenera e dura, proprio come quella di sua figlia Dentro la bara finiranno fiori, ricordi e persone. Le parole pronunciate e articolate dalla poetessa e dall’infermiera/figlia, proiettate su un velo trasparente e di un bianco che nella tradizione asiatica è il colore simbolo di lutto, sono un veicolo e la didascalia di ciò che rimane al di fuori di quella bara. Le parole e la poesia sono un rituale rabbioso che serve per tenersi in vita, quando quest’ultima scorre via e non ha quel senso che dovrebbe avere.
La materialità è caduca, il corpo è transitorio, le parole no. I corpi sono esibiti anche mediante gigantesche radiografie proiettate perché alla fine resteranno sono scheletri e dalla bara non ci si può allontanare troppo. Si può guardare oltre, salire orgogliosamente su di essa. Quasi superando la paura di una morte che è inevitabile. La vera morte è proprio la privazione della vita simbolica, l’amarezza della solitudine, l’emarginazione come strumento di coercizione e non la decomposizione in quanto materia organica ‘Una stanza. Singola. Inondata di luce. Foderata da lampi radiografici. Scartavetrato dal suono. Agita da presenze, bambole russe che si celano sotto i copriletto intonsi, tra le intersezioni delle maioliche. Rammendare le reti della propria fantasia, quando tutto sembra sciogliersi in un benessere fittizio. Voci femminili sepolte, sovrapposte, infrante, in questo istituto di ‘apparente’ sanità, che sgretolano le ore della propria esistenza, feroci come le graminacee che attecchiscono sul cemento. Singulti. Alterazioni che rimbalzano sottopelle e si unificano sciogliendo i tramezzi di frontiera. Respirando l’aria mossa degli altri respiri. Trasformando l’apnea in un valore aggiunto. La follia è davvero una malattia o una manifestazione divina, un’espressione di libertà? E come e in nome di chi vengono tracciati gli steccati di quella discutibile libertà? ‘.(Ricci/Forte)
‘Easy’ significa facile. Rimanda a qualcosa che può essere o non essere semplice ed intuitivo. ‘Remember’ significa ricordare. E’ o non è facile gestire il ricordo di una vita? Il senso di questa nuova opera di Ricci e Forte, può trovarsi negli stessi versi di Marina Cvetaeva: ‘Solo non stare così tetro, la testa chinata sul petto. Con leggerezza pensami,con leggerezza dimenticami… E che almeno però non ti turbi la mia voce di sottoterra’.
Roberto Staglianò