Recovery Found tra Conte e Tremonti

A quanto si apprende, nel pomeriggio il premier Giuseppe Conte vedrà i capi delegazione delle forze di maggioranza per fare il punto sul piano di rilancio. Il confronto arriva dopo la lunga sessione di lavori a Villa Doria Pamphili per gli Stati generali dell’Economia, terminati domenica scorsa.

In forza del  Covid-19 si spera che l’Unione Europea sarebbe divenuta   una grande famiglia sposata ad un’innata solidarietà. In realtà non è così visto che attendiamo 36 miliardi dal Mes, 150 dal Recovery Found, 4 o 5 dal Sure. Nell’immaginario collettivo si pensa che queste elargizioni siano come  una mela sull’albero.  Basta alzare il braccio e il frutto si coglie. Gli altri Stati della Ue, e non solo quelli più rigorosi,  chiedono riforme, impegni e hanno tempi lunghi prima di scucire.

Il massimo esperto italiano di rapporti economici con la Ue  è Giulio Tremonti. Da ministro dell’Economia e delle Finanze anticipò la crisi del 2008 e resistette fino alla sciagurata estate del 2011, quando improvvisamente saltarono gli equilibri.

Tremonti ritiene che il premier si sia autoazzoppato con  un piano europeo che si è autoridotto. Lo ascoltiamo:

Per legge, prima di ogni formale consiglio europeo il governo deve chiedere il voto favorevole del Parlamento, che con il suo mandato rafforza il premier. Conte prima del consiglio di venerdì si è sottratto al voto e con ciò si è mostrato debole agli occhi dell’Europa. Questo riguarda anche il Recovery Fund. Nella versione originaria, il piano si chiamava Recovery Fund. È stato ribattezzato Nexy Generation dopo. Questo non è avvenuto per caso ma pour cause. Recovery in inglese vuol dire recupero, guarigione, e questo corrispondeva all’idea originaria del piano, il salvataggio dai disastri economici e sociali causati dalla pandemia. Il Next Generation ha una diversa direzione, non guarda agli effetti della pandemia, ma al futuro. Probabile che muteranno i numeri, ovverosia la quantità di denaro in arrivo, e con essi le causali e le determinazioni della Ue. Il cambio di nome non è uno scarto semantico marginale, sancisce la variazione della filosofia dell’intervento, che non è più un’operazione urgente di salvataggio dalla crisi post Covid-19 ma un investimento per le generazioni future. Da tenere presente che l’arrivo dei soldi è una conseguenza della direzione politica della Ue.

Andiamo davvero verso una Ue solidale che privilegia crescita e consumi rispetto ad austerità e rispetto dei parametri?

Ritengo che la traiettoria che sta prendendo la Ue sia assolutamente positiva ma ancora in divenire. C’è il rischio che l’eccesso delle aspettative si risolva in un boomerang contro l’Europa stessa. Ho il dubbio che le iniziative post Covid-19, presentate come un cambio di direzione permanente, stiano diventando un piano a termine. C’è un’asimmetria tra le aspettative che abbiamo in Italia e la realtà che si sta sviluppando a Bruxelles e nelle altri capitali della Ue. C’è differenza tra i discorsi che si fanno a Roma e quelli che si tengono a Berlino e Parigi.
La Ue si è improvvisamente auto disapplicata: ha sospeso il patto di stabilità, cancellato i sinistri parametri di Maastricht, rimosso il divieto degli aiuti di Stato alle aziende e superato il pregiudizio contro la moneta facile. Quello che sta facendo la Bce, col suo ‘fiat money’, creando continuamente dal nulla trilioni senza base nella realtà, ricorda per certi versi i buoni MEFO fatti negli anni Trenta da Schacht, il ministro dell’Economia di Hitler. Lui creava denaro artificiale a circolazione limitata per finanziare l’industria bellica, l’Europa lo fa per generare liquidità e trasferirla alle banche. I risultati sono diversi ma la tecnica è la stessa. Gli anni Venti di questo secolo ricordano quelli del secolo scorso. Ma l’Europa che ha abbandonato Maastricht, permette gli aiuti di Stato e stampa denaro a pioggia è provvisoria: tornerà al rigore e ai criteri originari o imploderà nell’eccesso di non rigore. Solo pochi mesi fa i vertici europei presentavano un intervento straordinario anti-Covid 19 da un trilione e mezzo di euro. Oggi sono scesi alla metà, 700 miliardi; ma appena l’altro ieri Germania e Francia hanno già ipotizzato 500 miliardi. Non serve tanta immaginazione per intuire il rischio che lì si finirà. A oggi, ma sarà così per tutto il 2020, i fondi declinati a Next Generation non ci sono. I soldi saranno raccolti sul mercato con l’emissione di bond europei. Ma per emettere bond devi avere una base di garanzia, altrimenti è difficile trovare chi ti fa credito. Le istituzioni europee tuttavia non hanno un patrimonio proprio né entrate proprie da usare come base di garanzia per l’intervento. In più, il Trattato Europeo vieta agli Stati membri di finanziare il debito di altre nazioni.  Comunque, gli eurobond si faranno.

Ma dove sta la base di garanzia per emettere eurobond?

Per creare la base di garanzia per emettere eurobond  l’Unione può sviluppare il bilancio 2021-27 prevedendo un aumento dei contributi dei singoli Stati, oppure programmando nuove entrate derivanti dall’istituzione di altre tasse europee. La prima soluzione è politicamente critica, perché il bilancio si approva con il voto favorevole di tutti gli Stati membri. E qui si incroceranno le resistenze non solo dei Paesi nordici, difensori dell’austerità, ma anche le perplessità degli Stati dell’Est, che sono più poveri, perché hanno un debito più basso ma anche meno reddito. Considerando i tempi e i metodi dell’ingegneria finanziaria, non ci si può illudere che sia in arrivo una massa enorme di denaro. I miliardi di Next Generation vanno raccolti sui mercati internazionali, dove non c’è la fila per dare quattrini alla Commissione Ue. Il flusso di denaro dalla Ue sarà concentrato nel trienno 2022-24. I conti non vanno fatti solo sullo sviluppo di un bilancio che occupa sette anni ma anche su due ulteriori variabili.
La massa di denaro va divisa per 27 ed è probabile che la mutazione genetica del piano da Recovery a Next Generation riduca l’entità di denaro destinata all’Italia. La nostra quota è ancora indeterminata, neppure si sa quanto di essa sarà a debito e quanto a fondo perduto. C’è poi la variabile delle riforme.   Prima di darci denaro, l’Europa vorrà sapere quali riforme faremo. Anzi, ce le suggerirà. Io, con la famosa lettera inviata al governo italiano dalla Bce il 5 agosto 2011, che pretendeva risposte in pochi giorni, ho qualche esperienza della benevola attenzione con la quale la Ue chiede all’Italia di fare riforme. Che le riforme vadano fatte è giusto. Che siano giuste le riforme che ci chiedono, non è detto. E poi, una volta che hai programmato le riforme, devi preparare i singoli piani d’investimento dei soldi che l’Europa ti concede. E devi redigere dossier analitici, minuziosi, calendarizzati, devi tracciare le procedure. Il tutto controllato giorno per giorno sia dalla Commissione Ue sia dagli Stati. Non sarebbe improbabile che il Parlamento tedesco chiedesse ai suoi ministri di riferire su come l’Italia spende i soldi che Berlino considera propri. Nel Paese delle mille leggi vedo difficile che venga fuori qualcosa di buono, l’esercizio sarà piuttosto complesso. Considerando quanto è stato fatto da ultimo, in particolare in questa emergenza, con un decreto continuo che si attorciglia su se stesso partendo da marzo fino a luglio in attesa di infiniti provvedimenti – si fa per dire attuativi – è probabile che le nostre difficoltà istituzionali e ambientali saranno tali da abbattere molte delle aspettative salvifiche che nutriamo. Non è ancora noto lo stato della nostra finanza pubblica. Entro l’autunno ci sarà evidenza dei numeri e alle criticità finanziarie si sommeranno quelle sociali. In ogni caso, se si pensa che la soluzione sia nel piano Next Generation, si sviluppa una prospettiva che si perde nell’assurdo. Se si pensa al Mes come strumento per acquisire liquidità istantanea si resta delusi andando sul sito del Mes, dove sono evidenti i tempi e i metodi delle procedure richieste e le finalità prettamente finanziarie. Chi in Parlamento o al governo pensa che si tratti di mezzi necessari e sufficienti per gestire l’emergenza di questo autunno, forse deve andare su altri siti. E’ necessaria una visione del futuro che al governo manca. I Paesi risolvono i loro drammi nell’unità, come la Germania nel 2004, quando emersero i costi della riunificazione e nacque la grande coalizione, che ancora oggi guida il Paese. In Italia però non vedo un ethos politico allineato al dramma del tempo attuale. Il salvataggio del Paese non può essere il programma di un solo partito; non ce n’è uno in grado di realizzarlo.

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