Referendum Jobs Act, l’11 gennaio la sentenza

Sarà esaminata mercoledì, nella camera di consiglio della Corte costituzionale, l’ammissibilità delle richieste relative ai tre quesiti referendari sul Jobs Act, una delle riforme chiave del governo Renzi, tra le più discusse e contestate nel Paese. L’ammissibilità è a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare della Cgil: ‘Carta dei Diritti Universali del Lavoro ovvero nuovo Statuto di tutte le Lavoratrici e di tutti i Lavoratori’.

Le richieste sono già dichiarate conformi alla legge dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione, grazie all’ordinanza depositata il 9 dicembre 2016, e i tre quesiti hanno come oggetto i seguenti temi:

  1. La cancellazione del lavoro accessorio (voucher)
  2. La reintroduzione della piena responsabilità solidale in tema di appalti
  3. La nuova tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo per tutte le aziende al disopra dei cinque dipendenti.

Dopo la memoria dell’Avvocatura dello Stato sui quesiti referendari sul Jobs Act l’11 gennaio, come si diceva,  toccherà alla Corte Costituzionale esprimersi sulla loro ammissibilità. Diverse le posizioni sul tema espresse dai presidenti delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi.

‘L’Avvocatura dello Stato ha opportunamente evidenziato le ragioni di un possibile rigetto dei quesiti referendari sul lavoro da parte della Consulta, rilevando come i quesiti sull’articolo 18 sono manipolativi perché il loro contenuto non è univoco e il loro esito favorevole sarebbe creativo di una disciplina del tutto nuova’, è quanto ha sostenuto pochi giorni fa Maurizio Sacconi, presidente della Commissione Lavoro del Senato, in un post pubblicato sul blog dell’Associazione amici di Marco Biagi.

Di segno diverso il commento di Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera, secondo cui sull’articolo 18 non c’è nulla di manipolativo, in un quesito che propone una abrogazione parziale e non totale della normativa. Ed è ovvio che l’abrogazione della norma generale dei 15 dipendenti innalza allo stesso rango ‘generale’ ciò che residuerebbe: vale a dire la soglia dei 5 dipendenti, che esiste e che vale attualmente come clausola speciale o residuale solo per l’agricoltura. Il contenuto del quesito è dunque univoco e la disciplina che si creerebbe non è del tutto nuova.

Per Sacconi, ha fatto bene il governo a far considerare il voucher come un istituto senza alternative per la regolarizzazione degli spezzoni lavorativi.

Per Damiano, il governo dovrebbe sostenere la proposta di legge firmata da 45 parlamentari del Pd che propone di tornare alla legge Biagi del 2003.

Riguardo la responsabilità solidale negli appalti per Sacconi, la disciplina, ove abrogata, darebbe luogo ad incertezze applicative e per essa dovrebbe valere il principio per cui si risponde di ciò che è nella nostra possibilità conoscere e controllare.

Per Damiano basta ripristinare la normativa del governo Prodi del 2007, ‘manipolata’ dai successivi Governi. Se funzionava allora, può funzionare anche adesso per le retribuzioni e per i contributi previdenziali.

In realtà siamo in un passaggio della storia in cui, a torto o a ragione, si è consolidata la convinzione che ci si trovi disarmati e inadeguati al cospetto degli effetti dei cambiamenti epocali che in atto da qualche decennio, quali la totale liberalizzazione degli scambi di beni e servizi, la finanziarizzazione dell’economia, la pervasione delle tecnologie digitali, lo sconquasso ecologico, aggiuntivo a quello già in atto, conseguente all’industrializzazione intensiva di continenti con miliardi di abitanti, le migrazioni dai Paesi poveri verso quelli classificati come ricchi, il risveglio dei conflitti religiosi e identitari.

Tanta debolezza di visione dei governanti avvicendatisi alla guida dei Paesi dell’Occidente industrializzato è all’origine della disintegrazione dei soggetti storici di rappresentanza collettiva (partiti, sindacati, associazioni d’imprese) e del successo di leaders e movimenti a orientamento populista, a cominciare da Donald Trump negli Stati Uniti, per finire a chissà quali uomini o donne partoribili dalle urne delle prossime tornate elettorali in calendario nei maggiori Paesi europei.

In questo contesto, la riduzione quantitativa delle opportunità di lavoro nei settori tradizionali, quali la manifattura e il pubblico impiego, i mutamenti nei contenuti delle prestazioni, le destrutturazioni organizzative, le delocalizzazioni di produzioni e servizi, il ridimensionamento e addirittura la scomparsa di interi comparti produttivi, la progressiva chiusura delle attività commerciali diffuse a vantaggio delle concentrazioni distributive, oggi ancora con una consistenza fisica, ma evolventi verso assetti virtuali, il ridimensionamento dei sistemi pubblici di welfare, l’indebolimento degli apparati di sicurezza, fenomeni riconducibili alla mescolanza dei mutamenti citati innanzi, cui si reagisce, esorcizzando il disagio sociale indotto, ai nemici più individuabili e a portata di mano: le frontiere aperte, le migrazioni, l’ingordigia e la corruzione delle élites politiche.

Questo ci dice che  dobbiamo riaprire il capitolo non proprio nuovo di uno sviluppo programmato, facendo leva su un rilancio degli investimenti pubblici e privati.

Quelli privati possono essere sostenuti o da finanziamenti a fondo perduto o da politiche fiscali vantaggiose. La prima fattispecie è stata praticata in abbondanza nei decenni che abbiamo alle spalle e, pur avendo dato luogo a ottime e durature esperienze, ne ha accumulato molte di più catalogabili nel novero degli sperperi e delle ruberie. Ha un senso lasciarla in vita solo in presenza di programmi credibili di ricerca applicata.

La leva fiscale, invece, è quella giusta per il livello di responsabilizzazione che impone ai beneficiari. Non può essere, però, usata per tempi limitati, come ripetutamente è accaduto, e senza verifiche severe sugli effetti conseguenti; ciò significa che deve essere strutturata e permanente sul modello di quanto già praticato in forma sistematica e con successo in Olanda e Irlanda e, limitatamente alle start up, anche in Gran Bretagna.

Una programmazione rinnovata è il presupposto per creare il lavoro che manca e che è fonte primaria di disagio sociale; la regolamentazione del lavoro concorre al risultato, ma non lo determina di per sé.

L’aspetto più paradossale del modo di affrontare le tematiche del lavoro nel nostro Paese è che si parla pochissimo di progetti e azioni per creare posti di lavoro, mentre sia i governanti di turno sia i loro oppositori di varia estrazione concentrano tutte le loro attenzioni sulle regole.

In forza di questa linea di tendenza, oggi sotto i riflettori vi è quel complesso di regole, alcune nuove, altre vecchie riadattate, che porta il nome di Jobs Act, e l’interesse va concentrandosi sui referendum promossi dalla CGIL che ne ipotizzano l’abrogazione, come dicevamo,  di alcune.

Quale che sia il responso della Corte costituzionale sulla loro ammissibilità, è forte il dubbio sull’opportunità di far ricorso allo strumento referendario per l’abrogazione di norme che hanno poco più di un anno di vita e i cui effetti andrebbero monitorati con ben maggiore attenzione di quanto non si stia facendo.

In buona sostanza, la produzione legislativa del Governo Renzi può e deve essere messa sotto monitoraggio costante, può e deve essere corretta, ove necessario, e ciò si sta già facendo con le recenti misure adottate in ordine alla tracciabilità dei buoni lavoro, ma non può essere liquidata in nome di un’avversione politica/ideologica.

Fermo restando che il nodo fondamentale era e resta quello di programmare una nuova fase dello sviluppo economico, che utilizzi in termini innovativi e veloci le risorse economiche disponibili e si traduca nella creazione di un numero crescente di opportunità di lavoro, è necessario concentrare l’attenzione su come cambia il contenuto del lavoro e su come governare le ormai fisiologiche erraticità temporali delle quantità di lavoro disponibile.

Naomi Sally Santangelo

 

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