Il Quirinale è l’argomento che sta tenendo banco nei palazzi della politica. Nella seconda metà di gennaio, infatti, scrive Bruno Vespa nel suo editoriale su Il Giorno, si deve “scegliere un nuovo capo dello Stato. A questo punto la pressione si trasferisce da Mattarella a Draghi perché rinunci alla tentazione di candidarsi”. Una “pressione curiosa”, osserva il direttore di ‘Porta a Porta’, “perché finora il presidente del Consiglio si è limitato a sfiorare l’argomento – essendo impossibile farne a meno – solo in conversazioni rigorosamente private perché è noto che al Quirinale non ci si candidi, ma si sia candidati”.
‘’Stavolta il ruolo di kingmaker tocca a voi del centrodestra”. È stato chiaro Matteo Renzi, leader di Italia Viva, nel suo intervento al dibattito ad Atreju intitolato “Analisi, necessità e prospettive di una riforma dello Stato in senso presidenziale”.
‘’Il punto, però è se il centrodestra prende l’iniziativa insieme oppure no”.
“Questa volta – ha aggiunto l’ex presidente del Consiglio – o la destra si incarica di fare una proposta complessiva o se non lo fa, io sono dell’idea che, quando si arriverà a discutere dal 20 gennaio in poi per la scelta del nuovo capo dello Stato, si cerchi l’uno l’altro di trovare le ragioni migliori per scegliere tutti insieme l’arbitro per i prossimi 7 anni”.
Ora ci sono due preoccupazioni. La prima è che “caduto il governo per la promozione del suo capo, si vada alle elezioni anticipate come accadrebbe in un Paese normale. Ma questo significherebbe consegnare alla povertà molti deputati e senatori, soprattutto 5 Stelle, che staranno maledicendo la sciagurata decisione di avere imposto la riduzione di un terzo dei parlamentari”. La seconda è che “senza Draghi il Paese vada allo sbando, avendo egli dato in pegno all’Europa la propria credibilità perché i miliardi del Piano di Ripresa vengano spesi nel migliore dei modi possibili”.
In questo campo ci sono poi quelli che come Vespa ritengono che “il trasferimento al Quirinale” di Draghi “non faccia scadere la garanzia del pegno di credibilità del nuovo sistema Italia” e quelli che invece vedono “la sciagura dietro l’angolo”. Quel che è certo è che ad Atreju “Enrico Letta ha ripetuto a Giorgia Meloni che il capo dello Stato va scelto insieme”. Forse, scrive Vespa, ha paura che “il centrodestra possa fare da solo, visto che per la prima volta ha la maggioranza relativa dei Grandi elettori e che nelle Camere ci sia una sterminata platea di Franza/o Spagna/purché se magna pronti a votare chiunque in cambio di chissà che cosa? Questa seconda ipotesi non è peregrina, se non altro perché Matteo Renzi ha un pacchetto di voti con il quale può costruire o scassare qualunque gioco”. Forse Letta vuole “scongiurare l’elezione di Berlusconi, che per il Pd sarebbe infinitamente più perniciosa del Covid”. L’unica soluzione sarebbe Draghi subito.
“Questa maggioranza senza Draghi? Non lo so se andrebbe avanti. So che questa è una maggioranza molto difficile, fa fatica a stare insieme e se lo stiamo stati fin qui è stato per grande senso di responsabilità da parte di tutti”, ha detto Enrico Letta intervistato alla convention di Atreju da Bruno Vespa e Maurizio Belpietro. Insomma, secondo il leader del Pd, se Draghi andasse al Colle il governo non reggerebbe e ci sarebbe molto probabilmente la fine anticipata della legislatura. “Io penso che Draghi stia facendo molto bene e se resta a palazzo Chigi è positivo ma ne parleremo a gennaio”. Mentre sull’ipotesi Berlusconi ha aggiunto: “Io ritengo che il presidente della Repubblica debba essere eletto con una larga maggioranza, che debba essere votato da tutti e non mi sembra che questa sia la caratteristica che contraddistingue l’ipotesi di candidatura di Berlusconi. È contraddittoria“. La strada, ha concluso, sarebbe “molto in salita”
Per anni Walter Veltroni scontò la locuzione “ma anche”, presa a simbolo di una sua presunta indecisione su tutto. Molti anni più tardi Nicola Zingaretti venne immortalato sulla copertina dell’Espresso con la frase “Il compagno Boh” per evidenziarne un certo immobilismo strategico.
Ma che dovremmo dire allora di Enrico Letta? La sua proverbiale cautela sta diventando vaghezza, il suo parlare a bassa voce è diventato inudibile, il suo felpato modo di fare sembra alludere alla fuga dalle responsabilità: ecco come le qualità possono tramutarsi in difetti. Vediamo solo gli ultimi esempi, ché la lista sarebbe lunga.
La Cgil proclama con la Uil uno sciopero generale di otto ore, di quelli cioè che si fanno quando la lotta è dura davvero e la posta in gioco decisiva, spacca dopo anni l’unità sindacale sindacale con la Cisl e il segretario del Pd che dice? «Non mi metto a dare giudizi sulle scelte dei sindacati».
Ora, va capito il dramma di un partito che per metà sta con Landini – cioè la sinistra interna che ha le chiavi del Nazareno – e un’altra metà che è maggiormente vicina al governo di Mario Draghi, di qui l’imbarazzo del segretario che è “amico” della Cisl ma certo non può criticare apertamente i compagni della Cgil. Detto questo, un vero “capo” prende una posizione un po’ più chiara. Pur senza attaccare i due sindacati, avrebbe benissimo potuto dire qualcosa che suonasse come una garbata presa di distanza dallo sciopero. Altro che “ma anche”.
Oppure, parliamo del caso di Roma. Letta prima candida lui stesso Giuseppe Conte a Roma 1 e poi, tramontata l’ipotesi e non presa in considerazione la candidatura di Elena Bonetti, ha detto che «decideranno i romani».
Ma insomma qual è il metodo? Chi decide? Ancora: Letta, almeno secondo la vulgata, vuole il bis di Mattarella ma l’autorevolissimo senatore Luigi Zanda presenta una legge per vietare in futuro appunto un bis del Presidente uscente, suscitando la sorpresa del Capo dello Stato facendolo irrigidire ancora di più sul suo diniego. Letta non poteva non sapere del ddl Zanda, e dunque cosa si deve pensare? Infine, il segretario ha lavorato per l’ingresso degli otto europarlamentari grillini nel gruppo dei socialisti europei, poi c’è stato un stop chiesto tra gli altri dalla vicesegretaria Irene Tinagli ma già solo l’ipotesi ha fatto fare le valigie a Carlo Calenda, e poi della cosa non si è più saputo niente: eppure sarebbe una mossa strategica, possibile che venga gestita così?
E soprattutto ci sono le questioni più di fondo. Ancora nessuno ha capito se il segretario del Pd si sia convinto di eleggere Draghi al Quirinale o no o, più precisamente, cosa intende fare per far restare Draghi a Palazzo Chigi come ha ripetuto anche ieri. Perché allora non dice chiaramente che il Pd non ritiene di votarlo per il Colle?
Così come ancora non è chiaro cosa il numero uno del Nazareno intenda fare per costruire il famoso “campo largo” che rischia di restare uno slogan buono per tutte le stagioni ma talmente generico da restare un’araba fenice. Per ora, va annotato che il campo si restringe all’Ulivetto Pd-Articolo Uno-M5s, visto che poco o nulla Letta sta facendo per cercare di aprire un discorso con i riformisti di Renzi, Calenda, Bonino. Questi ultimi saranno pure a dir poco riottosi e polemici, ma il Pd sembra ne sia contento. Il che è legittimo ma allora Letta lo dica. Cerchi altrove. Come ha scritto perfettamente Paolo Mieli sul Corriere, «se i leader di Pd e M5S non chiariranno esplicitamente quali sono i partiti del centro che considerano interni al campo largo» la storia è destinata a finire molto male. Letta quindi deve prendere le decisioni che spettano a un capo politico. Altrimenti lo chiameranno “l’amico Boh”.