Inseguiamo da anni la crescita confidando nel rilancio della domanda interna. Nessuno ha messo nel conto che si poteva giungere a un punto in cui alla crescita bassa facesse riferimento una ripresa dell’inflazione senza un adeguato incremento degli stipendi.
Siamo adesso in questa condizione: uno sviluppo economico minimo, quasi stagnante e un potere d’acquisto che si riduce. I dati Istat messi a confronto non lasciano dubbi: siamo tornati a marzo 2013 quando i salari crescevano meno dei prezzi. A gennaio l’inflazione si è attestata all’1 per cento mentre i salari sono aumentati della metà (0,5).
I salari a picco sono una notizia decisamente negativa anche perché, nel frattempo, l’inflazione comincia a lanciare segnali di ‘vivacità’, anche se piccola.
E se la deflazione ha sino ad ora in qualche maniera attutito il problema tenendo faticosamente in linea di galleggiamento il potere d’acquisto, adesso i nodi accumulati in questi anni in cui i rinnovi contrattuali sono stati sistematicamente rinviati nell’indifferenza del governo che si è risvegliato soltanto alla vigilia del referendum costituzionale, vengono al pettine.
A segnalarli provvede la Confederazione dei sindacati europei (Ces). I salari dei lavoratori dipendenti italiani sono oggi più bassi che nel 2009 perché in questo lasso di tempo ogni anno ci siamo persi per strada lo 0,3 per cento del potere d’acquisto. Risultato: un arretramento del due per cento.
Ma se altrove nel 2016 dagli stipendi sono arrivati segnali confortanti, in Italia, Francia e Grecia le cose non sono cambiate denunciando una situazione stagnante per giunta aggravata dal fatto che è calata anche la produttività per ora lavorata (-0,53).
I dati della Ces hanno sottolineato l’esistenza di un grosso problema e sino a quando le tasse saranno troppo pesanti sule buste-paga i salari non cresceranno e l’economia non ripartirà.