Scandalo in Vaticano, speculazioni e denaro sottratto ai poveri: come funzionava il presunto “sistema Becciu”

Si allarga lo scandalo in Vaticano: dopo l’inchiesta scattata sul palazzo di Sloane Avenue 60 a Londra nel 2019, parte il prossimo 27 luglio il processo contro l’ex Sostituto della Segreteria di Stato Angelo Becciu, che lo stesso papa Bergoglio, in un’udienza del 24 settembre passata alla storia, ha privato della carica. Assieme a lui a giudizio ci sono anche prelati, funzionari della Santa Sede, finanzieri e manager e quattro società, di cui una riconducibile alla “dama del Cardinale” Cecilia Marogna.

Una maxi inchiesta sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, in cui non compare solo l’immobile londinese di lusso acquistato dal Vaticano per centinaia di milioni di euro quando Becciu era sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato della Santa Sede, ma molto di più.

L’inchiesta ha fatto emergere quelle che si configurerebbero come operazioni speculative finanziate anche con i soldi per i poveri nella diretta disponibilità del Papa, quelli dell’Obolo di San Pietro, portando a perdite milionarie per la Santa Sede.

“Un marcio sistema predatorio e lucrativo” lo definisco i pm, a danno della stessa Segreteria di Stato e di suoi fondi caritativi, con conseguenti gravi perdite per le casse vaticane, che si sarebbe retto su “complicità e connivenze” tra operatori finanziari e consulenti esterni e addetti e dirigenti interni.

A giudizio sono finiti il cardinale Angelo Becciu, il suo ex segretario monsignor Mauro Carlino e la sua donna di fiducia Cecilia Marogna, i finanzieri Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, l’ex direttore dell’Aif, Tommaso Di Ruzza e il presidente René Brulhart, per cui però si procede separatamente, l’ex gestore delle finanze vaticane Enrico Crasso, l’avvocato Nicola Squillace, oltre a quattro società, una riconducibile a Marogna (la Logsic Doo) e le altre a Crasso (Sogenal, Prestige family office Sa, entrambe con sede a Lugano, e Hp Finance con sede a Miami).

Nelle carte dell’inchiesta si legge che Becciu, insieme a Crasso, Mincione e Tirabassi, avrebbero fatto in modo che quei soldi finissero in “attività imprudentemente ed irragionevolmente speculative”, come scalate a istituti bancari italiani in incipiente stato di crisi, e contrarie agli scopi per cui i fedeli le avevano donate alla Chiesa.

Otto i capi di imputazione in totale contro il cardinale della Santa Sede. In particolare, Becciu è accusato di peculato e abuso d’ufficio, oltre che di subornazione di un testimone. Becciu in particolare deve rispondere dei bonifici per 575mila euro fatti dalla Segreteria di Stato all’amica manager cagliaritana Cecilia Marogna, che sarebbero poi finiti in spese personali e oggetti di lusso, e i finanziamenti rivolti alla cooperativa del fratello Antonino, ben 600mila euro dai fondi Cei e 225mila da quelli della Santa Sede.

Becciu, Mincione, Crasso e Tirabassi sono accusati di peculato in concorso perché, si legge, “si appropriavano, convertendola a proprio profitto, e, comunque, consentivano che altri se ne appropriassero, di parte delle liquidità versate dalla Segreteria di Stato nel fondo Athena di Mincione”, per un ammontare complessivo (alla data del 28-2-2014) di 200,5 milioni di dollari ottenuto ricorrendo ad una complessa architettura finanziaria (c.d. credit lombard), consistita nella concessione di linee di credito da parte di Credit Suisse e Bsi a fronte della costituzione in pegno di valori patrimoniali per un importo non inferiore a 454 milioni di euro posseduti dalla Segreteria di Stato stessa e derivanti, in gran parte, dalle donazioni dell’Obolo di San Pietro.

In pratica, secondo l’accusa, avrebbero disposto che somme vincolate a finalità di carità venissero impiegate per attività “altamente speculative e, comunque, contrarie a quelle per le quali erano state raccolte presso i fedeli” e per aver consentito e reso possibile l’acquisto di un bene (il Palazzo di Londra) a condizioni “inique e gravemente dannose” per la Segreteria di Stato a beneficio della parte alienante, tenuto conto dell’effettivo valore di mercato del bene e della ingiustificata plusvalenza procurata alla medesima parte alienante riconducibile a Mincione.

I quattro sono accusati anche di abuso d’ufficio perché avrebbero approvato l’investimento immobiliare per 100 milioni di dollari nel fondo Athena di Mincione senza alcuna preventiva verifica del contraente e senza alcuna precedente attività istruttoria, e ciò nonostante le informazioni all’epoca disponibili che avrebbero dovuto indurre a dubitare della affidabilità di Mincione.

Crasso, Mincione, Tirabassi e Torzi sono poi accusati dai magistrati vaticani di peculato in relazione alla triangolazione sul palazzo di Londra, avendo concluso lo Share Purchase Agreement con Gutt Sa, società di diritto lussemburghese facente capo a Gianluigi Torzi, e con Athena real estate & special situations fund 1, “senza alcuna preventiva istruttoria sulla fattibilità giuridica e sulla convenienza economica dell’operazione”, con “un esborso complessivo, per la Segreteria di Stato, di oltre 350 milioni di euro per conseguire la piena proprietà di un bene di valore notevolmente inferiore”, il palazzo di Londra, appunto, che era stato “acquisito dal precedente proprietario (la società Time and Life Sa controllata da Mincione), in data 18-12-2012, al prezzo di appena 129 milioni di sterline”.

Per Mincione le accuse sono di appropriazione indebita, truffa e autoriciclaggio per avere tra l’altro attribuito all’immobile di Londra il valore, “del tutto ingiustificato”, di 230 milioni di sterline a fronte di una valutazione di poco precedente pari a 129 milioni, e per avere ottenuto “un ingiusto profitto” con danno per la Segreteria di Stato per un importo complessivo di 78,9 milioni di euro per consentire alla Santa Sede di uscire dalle operazioni reputate non più convenienti.

A Crasso e Tirabassi viene contestata anche la corruzione per aver sollecitato, “direttamente o indirettamente, o comunque accettato l’offerta o la promessa”, dal ceo di Credit Suiss London Investmant banking e da Raffaele Mincione di “un indebito vantaggio – anche sotto forma di commissioni, provvigioni e fee – per sé e per altri, per compiere o per aver compiuto atti posti in essere per conto della Segreteria di Stato”.

A Torzi, Tirabassi, Crasso e Squillace viene contestata infine la truffa in relazione all’operazione che ha portato la segreteria di Stato, nella persona di monsignor Alberto Perlasca, per uscire dal fondo Athena di Mincione, a sottoscrivere i due accordi con la Gutt Sa di Torzi, consentendo al banker di trattenere 1.000 azioni con diritto di voto che di fatto impedivano alla Segreteria di Stato, nonostante in possesso di 30.000 azioni senza diritto di voto, di disporre dell’immobile di Londra, tanto che per acquisirlo, tra aprile e maggio 2019, la Segreteria di Stato ha dovuto corrispondere a Torzi, “senza alcuna valida ragione giuridica ed economica, la somma di 15 milioni di euro”.

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