Sciiti e sunniti, lo scontro secolare che incendia il Medio Oriente

L’esecuzione dello sceicco sciita Nimr Al Nimr, uno dei leader religiosi e politici del movimento di protesta esploso nel 2011 nella ricca provincia orientale saudita che reclamava maggiori diritti per la più grande minoranza religiosa del paese, rischia di far deflagrare un duplice scontro, politico e religioso, nella regione. Tra sunniti e sciiti, e tra le potenze confessionali di Arabia Saudita e Iran, che si sono erette, rispettivamente, protettrici di quelle stesse comunità. Per sopravvivere alla catastrofe teologica legata alla scomparsa del dodicesimo Imam, figura che contrariamente a quanto avviene nel sunnismo non è una semplice guida della preghiera ma un mediatore tra sacro e profano, dando vita a un vero e proprio clero stratificato per sapere religioso. Un ceto di specialisti che, tra l’altro, deve interpretare il significato nascosto del messaggio coranico, considerato testo che ha anche una dimensione esoterica e non solo, come per i sunniti, essoterica o letterale. Il conflitto sciiti-sunniti non è più una guerra circoscritta al Siraq perché  Arabia Saudita e Iran, le due potenze rivali del Golfo sono ai ferri corti, e l’Occidente non è solo uno spettatore interessato ma insieme alla Russia, alleata di fatto di Teheran, è uno degli attori protagonisti. In verità, una delle maggiori cause dell’instabilità in Medio Oriente risiede nella divisione tra sciiti e sunniti che si protrae da tredici secoli, ed è legata alla successione del Profeta Maometto, morto nel 632 d.C. Origini politiche per una spaccatura che ha acquisito nel tempo anche connotazioni teologiche e attualmente ha scatenato rivalità geopolitiche. Il sunnismo comprende il 90% dei mussulmani, ha come paese di riferimento l’Arabia Saudita, e rappresenta in un certo senso l’ortodossia rispetto alla corrente minoritaria sciita, che ha a sua volta nell’Iran la potenza egemone. Lo scacchiere dello scisma tra sunniti e sciiti, ulteriormente suddivisi al loro interno in numerose correnti compreso quelle radicali, è estremamente complesso, ma può perlomeno essere storicizzato attraverso alcuni eventi che ne delineano le caratteristiche principali. Il termine sunnita deriva dall’arabo Ahl al-Sunnah che significa ‘il popolo delle tradizioni (di Maometto)’. I sunniti ritengono di essere la scuola di pensiero più ortodossa e tradizionalista dell’Islam. Il termine sciita deriva dall’arabo Shi’atu Ali, ovvero ‘sostenitori (politici) di Ali, genero di Maometto. Subito dopo la morte del profeta Maometto nel 632, i musulmani si divisero in due rami. Il primo, i futuri sunniti, sosteneva che il nuovo leader della comunità musulmana, ovvero il legittimo califfo, fosse Abu Bakr, compagno di Maometto e importante studioso islamico. Il secondo ramo, i futuri sciiti, sosteneva che diventare califfo fosse invece un diritto riservato ai discendenti di Maometto e che quindi spettasse a Ali ibn Abi Talib, il genero del profeta, dal momento che Maometto non aveva figli maschi. Molte scuole di pensiero sunnite ritengono che gli sciiti siano i peggiori nemici dell’Islam. A differenza degli ebrei e dei cristiani che sono considerati più semplicemente miscredenti, gli sciiti sono spesso visti come eretici e vengono accusati di venerare il loro Imam Ali e i suoi discendenti. Nell’Islam sunnita il califfo è il leader dell’intera ummah, comunità musulmana, ed è una figura politica, mentre l’imam è semplicemente una figura religiosa che guida la preghiera in moschea. Nell’Islam sciita invece la parola imam è anche sostituita a califfo, e i dodici imam riconosciuti ufficialmente dagli sciiti, tutti appartenenti alla famiglia del profeta Maometto, sono da loro considerati come i leader spirituali, religiosi e politici della ummah. La maggior parte degli sciiti, tra il 68 e l’80 per cento, vive in quattro Paesi: ‘Iran, Pakistan, India e Iraq’. L’Iran da solo ne ospita quasi 70 milioni, circa il 40 per cento della popolazione totale degli sciiti nel mondo. I Paesi a maggioranza musulmana sono 49, di cui Iran, Iraq, Azerbaijan e Bahrain sono gli unici a maggioranza sciita, e il Libano è l’unico a non avere una netta maggioranza tra le due scuole di pensiero. È in questo scenario che i sauditi, agitando la scimitarra del giustiziere, hanno lanciato il loro missile virtuale contro l’Iran, grande protettore degli sciiti. L’Iran è, in realtà, il loro primo bersaglio. Il secondo bersaglio sono i ribelli Houti dello Yemen sostenuti da Teheran, contro i quali Riad sta conducendo un conflitto che è diventato una sorta di Vietnam arabo. Ma le reazioni sciite, dal Bahrein dominato dai sunniti Al Khalifa, al Libano degli Hezbollah, dall’Iraq del governo di Baghdad al lontano Kashmir indiano, dimostrano che si va ben oltre i labili confini mediorientali. Con queste esecuzioni Riad invia un messaggio alla comunità internazionale che accusa, non troppo velatamente, di appoggiare la casa saudita che ha incoraggiato con la sua ideologia religiosa i gruppi jihadisti. Ed è per questo che l’Arabia Saudita prima ha convocato i gruppi dell’opposizione e poi ha fondato una santa alleanza di stati sunniti dalla quale alcuni, come il Pakistan, si sono sfilati. Le condanne a morte attraverso il sangue devono sancire il nuovo ruolo saudita anti-terrorismo. Il governo di Baghdad, dove i sauditi hanno appena riaperto dopo 25 anni l’ambasciata, è chiamato alla gestione della riconquista di Ramadi, un momento chiave per tentare di ricostruire la fiducia tra sciiti e sunniti. Si avvicina, inoltre, l’apertura del negoziato Onu sulla Siria dove una delle questioni principali sarà proprio la rappresentanza al tavolo dei gruppi sunniti. E per Teheran si avvicina la fine delle sanzioni, forse unico freno a una reazione feroce degli iraniani. Il jihadismo doveva essere nei piani delle potenze mediorientali, come Turchia e Arabia Saudita, lo strumento per abbattere il regime di Damasco e modificare i confini della Siria di Assad, e quelli dell’Iraq sciita. In questo momento, oltre a essere un incubo per l’Europa, appare l’avanguardia della loro stessa disgregazione sul fronte interno ed esterno perché i jihadisti non vinceranno la guerra contro gli sciiti, come già accadde a Saddam Hussein negli anni ’80 dopo l’attacco all’Iran. L’Arabia Saudita è, dal 1945, un alleato di quell’America che, dal sequestro degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran sino alla lunga e tormentata partita sul nucleare, è stata agli occhi degli iraniani ‘Il Grande Satana’. Mandando a morte Al Nimr i sauditi inviano ora al mondo un messaggio. Le proteste esplose nel mondo sciita, nel Bahrein oltre che nelle province orientali saudite, in Libano come nel Kashmir, sono solo un’avvisaglia delle nuove tensioni che l’esecuzione di Al Nimr può innescare. Anche perché sia le dinamiche connesse all’auto attribuito rango di potenze confessionali, sia la battaglia senza esclusione di colpi per conquistare il ruolo di potenza regionale dominante, mandano oggettivamente in rotta di collisione strategica Teheran e Riad, alimentando un conflitto settario. Anche in contesti dove, di fatto, sauditi e iraniani sono membri di uno schieramento, come quello fondato sulla doppia coalizione, che ha come stesso nemico l’Is. Sino a quando la duplice frattura, religiosa e di potenza, alimenterà la sfida tra i due giganti mediorientali, il vero nodo politico dello scenario mediorientale, non sarà possibile stabilizzare l’area. Come rivela la stessa costituzione, su impulso saudita, di un alleanza militare sunnita che ha come esplicito obiettivo il contrasto al terrorismo. Termine con il quale Riad non si riferisce solo all’Is, o a Al Qaeda, ma anche a movimenti sciiti come l’Hezbollah libanese o gli Houthi in Yemen, all’opposizione alide in Bahrein o nelle stesse province orientali del Regno. E, soprattutto, al loro grande protettore che è l’Iran. Una dottrina politica e della sicurezza che, unita alle ambizioni iraniane, rischia di far deflagrare il già incendiario panorama regionale.

Roberto Cristiano

 

 

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