Sessantesimo anniversario del ‘Trattato di Roma’ il prossimo 25 marzo

Il 25 marzo 1957 tutte le campane della capitale italiana suonarono a festa all’annuncio della firma dei Trattati di Roma. Difatti era forte la coscienza di vivere un evento storico, una vera svolta nella storia dell’Italia e dell’Europa. Appena 12 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, gli europei vivevano ancora con il trauma dei massacri di massa dei due ultimi conflitti, delle distruzioni e  le macerie provocate dai bombardamenti erano ancora visibili. Tanti tra i popoli europei vivevano nella grande povertà. L’Europa era divisa dalla Cortina di ferro e  questi Trattati segnavano davvero la fine della guerra, nonostante la permanenza della ‘guerra fredda’.

Il 9 maggio 1950, il ministro francese degli Esteri, Robert Schuman, aveva aperto, insieme al tedesco Konrad Adenauer e all’italiano Alcide De Gasperi, nuove prospettive, una strada verso la pace e la riconciliazione tra gli ex-belligeranti, in particolare tra Francia Germania.

Aveva proposto ai popoli europei di mettere in comune le loro produzioni di carbone e di acciaio, che sono alla base delle guerre moderne. La Dichiarazione Schuman fu concretizzata con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, che creò la prima Comunità europea, la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Essa entrò in vigore un anno dopo, il 23 luglio 1952. Fu una prima tappa per concretizzare una delega di sovranità da parte dei sei Stati aderenti.

Il progetto di Comunità europea di difesa, collegata a un progetto di Comunità politica, fu invece bocciata nel 1954. Ma il progetto europeistico non era morto. La diplomazia italiana fu particolarmente attiva per rilanciare il processo di unità negli anni 1955 e 1956. Organizzò due grandi Conferenze a Messina (giugno 1955) e a Venezia (maggio 1956), che prepararono, non senza difficoltà, il Trattato di Roma, o più esattamente i Trattati di Roma che crearono la Comunità europea dell’energia atomica (Ceea o Euratom) e soprattutto la Comunità economica europea (Cee). Firmati nel cuore di Roma, nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, i Trattati costituivano un vero approfondimento dell’unione del continente, almeno della parte libera e democratica dell’Europa, con sei Paesi: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi.

Purtroppo, il progetto di esercito europeo e di unione politica erano stati abbandonati.  Invece, la costruzione europea prendeva un orientamento economico e sociale.

Si trattava di sviluppare gli scambi attraverso l’unione doganale e la creazione di un mercato comune; non una semplice area di libero scambio, ma un’unione sempre più stretta, con legami tra le economie nazionali sempre più forti per creare una vera ‘comunità di destino’.

Con l’unione economica si trattava di approfondire gli scambi, non soltanto delle merci, ma anche delle persone (principio della libertà di circolazione), condizione per cominciare a creare una coscienza europea. Si trattava anche di mettere in gioco delle politiche comunitarie specifiche, per esempio per l’agricoltura, per la pesca o per i trasporti. Dietro l’unità economica, doveva crescere il progresso non soltanto economico, ma soprattutto sociale, con una solidarietà inedita tra le regioni.

Nonostante la propaganda populista anti-europeistica che conosciamo in questo momento, nessun osservatore onesto può negare il successo incredibile della politica europea nata dai Trattati di Roma: anni di pace, di progresso sociale, di solidarietà, conoscenza mutua tra i popoli (pensiamo al famoso programma Erasmus per gli studenti).

Le difficoltà odierne non vengono tanto dai Trattati, ma dall’impossibiltà registrata nel 1954 di costruire un’europa politica e militare. Il fallimento del 1954 portò verso un’unione economica, cioè piuttosto tecnocratica: perché in effetti pensare una politica agricola comune, o creare una moneta unica, è il compito dei tecnici, con istituzioni complesse, spesso difficili da capire. Ciò può spiegare un certo deficit democratico, il sentimento che i popoli siano al di fuori del movimento europeistico. Non è colpa della Cee. È semmai colpa dell’incapacità di pensare l’unione in un senso politico, confermata dal fallimento del progetto di Costituzione europea nel 2005.

Per tale ragione, sessant’anni dopo, la posta in gioco sta nell’approfondimento politico, nella ricerca di istituzioni comuni chiare ed efficaci, con decisioni politiche comprensibili da tutti, capaci di costruire una vera unità, di passare dall’unità economica e monetaria, all’unità politica, e di costruire una coscienza europea.

L’Unione ha davanti sé molte sfide tra le quali la il deficit di equità, la lentezza della crescita  e la debole solidarietà fra gli stati membri. Si fa sempre più crudele il fondamentalismo islamico le cui diverse articolazioni sono uniti dalla rete con un unico scopo: alimentare il terrorismo dei cani sciolti, dei terroristi suicidi per vendicarsi dell’Europa. Le politiche dell’Unione non bastano più ad affrontare la questione migratoria. Nasce da tutto questo il deficit di credibilità del progetto comunitario, la perdita di fascino che in pochi anni ha allontanato gli europei da quello che solo una decina di anni fa appariva un obiettivo acquisito e non negoziabile.

Mentre si festeggiano i 60 anni del Trattato di Roma, punto di partenza del processo di integrazione, i paesi membri  discutono sull’efficacia e la direzione di marcia delle politiche europee. I populismi lavorano sulla sui risentimenti, sulle delusioni, sul lascito di una crisi che non è stata solo finanziaria, economica ed industriale, ma anche psicologica e che ha scavato profondamente nella mente delle persone creando solchi profondi di paura.

Non è un caso che a raccogliere i frutti siano proprio i populisti, grandi esperti nella diffusione dell’inquietudine sfruttando i problemi creati da una globalizzazione senza regole e che nemmeno l’Europa è riuscita a governare,  con l’esclusione sociale prodotta da cambiamenti avvenuti in una società provata che ha indebolito ulteriormente le sue difese attaccando il welfare e imponendo politiche suicide di austerità.

Poiché si tratta di un Trattato, la cui applicazione e portata è di grande importanza per il futuro dell’Europa Comunitaria, come tutti i Trattati può essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali ed alle nuove esigenze di un gran numero ormai di paesi aderenti.

Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà. Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione.

Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali. Dietro la cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi,  di natura essenzialmente finanziaria.

L’ultima campanello d’allarme è costituito  dai giovani, sempre più indifferenti, a volte ostili nei confronti dell’Europa. Ci vuole un cambio di passo perché le nuove generazione che hanno sofferto più di tutte le altre la crisi,  sono in attesa di risposte. L’Europa deve mostrare che come unità è capace di risolvere anche i problemi più complessi. Necessario, dunque, un cambiamento radicale delle politiche economiche, semmai accompagnata da una vera e propria rivoluzione culturale. L’Unione deve puntare soprattutto sui giovani, per informarli e renderli consapevoli delle decisioni europee.

Bisogna prendere atto che le potenzialità di crescita dei diversi stati non sono uguali. La conclusione è: crescita debole e  stagnazione.  Davanti alla globalizzazione, richiudersi dentro i propri confini è esattamente l’opposto di quello che serve ad un’Europa.

All’Unione, invece, servono politiche di rilancio. La crescita, ad esempio, pone al centro dell’attenzione il problema della governance dell’area Euro. Una questione centrale per il futuro della moneta unica è la definizione del rapporto tra una politica monetaria centralizzata,  oggi garantita dalla banca centrale europea,  e le politiche fiscali attuate a livello nazionale.

Cocis

 

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