Con lo scontro franco-italiano sui cantieri navali si nasconde la necessità di riposizionarsi rispetto alla mutazione della globalizzazione mondiale che prelude ad un ritorno dell’intervento pubblico e difesa dei capisaldi economici strategici. In Germania, analogamente, un intervento legislativo punta a mettere in sicurezza la proprietà delle società strategiche.
Se questa ipotesi è corretta sembra che la stagione del libero mercato dominato dalla finanza e dai potentati economici ai quali tutti devono obbedienza stia volgendo al termine.
Vediamo come del resto nel tempo si è snodato il confronto fra le due economie, francese ed italiana. Secondo studi di Kpmg gli investitori francesi hanno fatto spesa in Italia per 52,3 miliardi di euro. L’Italia viceversa può opporre solo 7,6 miliardi. Inutile dire che già solo questo dato condiziona il diverbio sui cantieri di Saint Nazaire. Inoltre fra i colossi economici in grado di far valere una potenza di fuoco determinata dalle tecnologie avanzate in quel settore noi possiamo vantare solo Finmeccanica e Leonardo. Francesi, tedeschi e britannici ci sopravanzano di molto.
Chi doveva soprattutto presidiare culturalmente, e sul piano politico, il fronte dell’evoluzione economica perché garantisse non solo la tenuta del nostro modello manifatturiero ma anche la speranza di lavoro e di reddito per i giovani e per le famiglie del futuro ha abdicato a favore del ruolo di coscienza critica del capitalismo.
Si pensi solo a questo dato: la Volkswagen, da sola e nonostante i guai che ha passato, ha un giro di affari che è il doppio dei nostri primi 10 gruppi manifatturieri che ammonta a oltre 80 miliardi. La grande industria tedesca fa profitti che si aggirano sui 200 miliardi di euro, quei nostri dieci gruppi stentano a superare i 4. Con la postilla che vanno meglio i gruppi privati di quelli pubblici superstiti.
Lo Svimez ci ricorda che dobbiamo fare i conti con lo storico divario nord-sud. Dal 2008 le regioni meridionali hanno perso 380 mila posti di lavoro e sul piano economico raggiungeranno i livelli pre-crisi, sempre secondo Svimez, solo nel 2028. Con il paradosso che il Parlamento vota un decreto per il Sud ma lo Svimez ci rammenta che intanto gli investimenti pubblici sono dati in calo. Il mondo del lavoro viene intanto sorretto da lavoratori anziani, part time e contratti a termine, mentre 10 abitanti su 100 sono in una condizione di povertà assoluta.
Ovviamente ci sono aree di eccellenza, recuperi importanti in tema di Pil che però torna a correre sotto i valori del nord: l’anno prossimo uno 0,9% rispetto ad un 1,2%. Pare che sia arrivato il momento di tornare a chiederci cosa vuol dire per l’Italia essere un Paese manifatturiero, quali le strategie da percorrere e difendere, quale il modello di sviluppo che può farci camminare lontano da stagnazione e declino.