Il presidente della Repubblica non gode della inviolabilità come se fosse un sovrano di una monarchia. E’ questa la tesi sostenuta dalla Procura di Palermo e messa nero su bianco negli atti depositati alla Consulta per il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale per le intercettazioni legate all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. “La tesi di fondo dell’Avvocatura dello Stato – scrivono nella memoria i professori Alessandro Pace, Giovanni Serges e Mario Serio, che compongono il collegio difensivo della Procura di Palermo – è che la norma dell`art. 90 della Costituzione, prevedendo in favore del Presidente la irresponsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni (con la sola eccezione dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione) configurerebbe per lo stesso un regime globale di immunità, anche penale, con la conseguenza di rendere illegittima in sé qualsiasi forma di ascolto delle conversazioni, di registrazione delle stesse, ed a maggior ragione di valutazione ed utilizzazione processuale”.
“’Un’immunità assoluta – si legge nella memoria difensiva – potrebbe essere ipotizzata per il Presidente della Repubblica solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irresponsabilità giuridica anche per i reati extrafunzionali. Una simile irresponsabilità finirebbe invece per coincidere con la qualifica di ‘inviolabile’, che caratterizza il Sovrano nelle monarchie ancorché limitate: una inviolabilità che – tenuta distinta dalla inviolabilità garantita dallo Statuto e dalle leggi a tutti i cittadini – implicava la totale immunità dalla legge penale nonché dal diritto privato quanto a particolari rapporti”. Il collegio difensivo della Procura di Palermo fa l’esempio della monarchia spagnola. “E’ ben vero – si legge negli atti – che ancora oggi si ritiene che l’inviolabilità del Re, nell’ordinamento spagnolo, ne escluda del tutto la responsabilità civile e penale anche extrafunzionale, e pertanto egli non può essere sottoposto né direttamente né indirettamente a ‘investigazione’ penale (ma non quando venga in gioco la sicurezza nazionale). Inoltre si ritiene in dottrina che una legittima intercettazione di una conversazione telefonica nella quale accidentalmente figuri il Re come mero interlocutore non equivale a ‘investigare la persona del Re’, e quindi la registrazione della conversazione ben potrebbe essere valutata dal giudice istruttore che ne ordinerà la distruzione solo se irrilevante ai fini delle indagini, mentre in caso contrario resterebbe agli atti qualora la sua distruzione possa danneggiare l’accusa oppure la difesa con conseguente violazione dell’art. 24 della Costituzione spagnola”.
Le telefonate intercettate. Le conversazioni telefoniche dell’ex ministro Nicola Mancino intercettate su mandato dei pm di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia sono state 9.295. Di queste, però, solo 4 sono intercorse con il Capo dello Stato. Dagli atti depositati dalla Procura di Palermo emerge che le telefonate effettuate da Mancino sono state registrate in un arco di tempo che complessivamente va dal 7 novembre 2011 al 9 maggio 2012: sei le utenze messe sotto controllo. Le quattro telefonate al Capo dello Stato, indirettamente intercettate, sono state effettuate dall’ex Mancino nelle seguenti date: il 24 dicembre 2011 alle ore 9.40 (durata 3 minuti): il 31 dicembre 2011 alle ore 8.48 (durata 6 minuti); il 13 gennaio 2012 alle ore 12.52 (durata 4 minuti); il 6 febbraio 2012 alle ore 11.12 (durata 5 minuti).