Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’articolo ricevuto da Tartaglia Arte:
PROSEGUE LA NOSTRA RICOGNIZIONE SUGLI ARTISTI INGIUSTAMENTE CADUTI NELL’OBLIO. STAVOLTA TOCCA A BENVENUTO FERRAZZI, PITTORE DEL SECOLO SCORSO CHE SCELSE DI SOTTRARSI ALLE REGOLE DEL SISTEMA ARTISTICO.
Quando Riccardo Ferrazzi (Castel Madama, 1892 ‒ Roma, 1969) decide di cambiare il suo nome proprio in Benvenuto, in omaggio al grande Benvenuto Cellini, ha solo 15 anni, e non può ancora sapere che avrebbe dato uno svolta al suo destino. Figlio del pittore Stanislao ‒ passato alla storia per avere ritratto Giacomo Leopardi a Recanati ‒ e fratello minore di un altro artista, Ferruccio, Benvenuto muove i primi passi nel mondo dell’arte a seguito del padre, copiando i capolavori nei musei in qualità di “copista”. Siamo nella Roma degli Anni Dieci, in un clima conservatore dal quale si cominciano a intravedere le prime esperienze futuriste con Giacomo Balla, Umberto Boccioni e Gino Severini: ed è proprio in quella situazione che il giovane Benvenuto muove i primi passi.
LA CARRIERA DI BENVENUTO FERRAZZI
L’esordio avviene nel 1918, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, quando espone le sue prime opere alla galleria dell’Epoca, accanto a pittori del rango di Carlo Carrà e Giorgio de Chirico. Poco dopo entra nella galleria di Anton Giulio Bragaglia, dove presenta opere di matrice figurativa caratterizzate da un realismo esasperato e drammatico, che attirano l’interesse della critica e di alcuni collezionisti, tra i quali Angelo Signorelli, vicino anche al fratello Ferruccio. L’interesse di Benvenuto si rivolge fin da subito al mondo degli emarginati, malati, poveri e derelitti: i suoi dipinti dalle tinte vivaci si avvicinano per certi versi alle vedute di Roma di Mario Mafai (Carcere di Regina Coeli, 1916-17) ma anche ad alcuni soggetti del periodo blu di Pablo Picasso (Antonio d’Alba, 1926; l’Attesa, 1927). Nonostante le sue opere avessero un certo successo, Benvenuto non accetta le costrizioni del mondo dell’arte ufficiale: lavora per dieci anni nella camera mortuaria del convento dei Santi Cosma e Damiano (tanto da guadagnarsi il triste nomignolo di “Benvenuto la morte”) e preferisce dedicarsi a un’esistenza bohémienne e randagia, dormendo e lavorando in conventi e stanze misere e squallide. Negli Anni Trenta si dedica a raccontare a fil di pennello la Roma dei rioni popolari di Trastevere e Borgo, con vedute caratterizzate da contorni forti e marcati (Piazza del Catalone, 1933; Via del Ricovero, 1935), mentre risultati più interessanti li ottiene dall’osservazione della vita rurale (Il pane, 1939; Ofelia, 1942, di proprietà dell’artista Enzo Cucchi), ma soprattutto nell’intenso Autoritratto (1941) dall’espressione sognante e intensa.