Tartaglia Arte: Il futuro dei musei è nei depositi

Che si tratti del cuore, del cervello, del polmone (e dunque del respiro) di un museo, o di tutte queste cose insieme, il deposito è sempre più al centro della riflessione sul futuro della museologia. E anzi, da qualche decennio a questa parte – pur con colpevole ritardo dal punto di vista di chi ne sostiene la funzione strategica e propulsiva nel ciclo vitale degli istituti museali – il dibattito sulla gestione e il ruolo dei depositi ha concretizzato la teoria della conservazione preventiva di cui si nutre la moderna museologia. Nelle grandi istituzioni museali, del resto, l’esposizione permanente rappresenta solo una piccola porzione di una riserva invisibile, che arriva a coprire spesso il 90-95% del patrimonio custodito. Questo è vero in tutto il mondo, innanzitutto per limiti strutturali – tanto più in Italia, dove gran parte dei musei sorge in edifici storici e cerca di mettere a frutto spazi preesistenti, spesso vincolati – che non consentono l’esposizione dell’intera collezione. Problema, questo, mitigato in parte con le rotazioni periodiche messe in atto per rispondere a un’esigenza primaria e fortunatamente sempre più diffusa: rendere i depositi museali luoghi vivi di formazione e di cultura. Storicamente, ancorché troppo spesso mal organizzati (un sondaggio ICCROM 2011, che ha raccolto le risposte di 1.490 musei in 136 Paesi, riportava dati preoccupanti, col 52% dei depositi riempiti oltre la capacità, il 46% dei musei senza un regolamento preciso per la gestione del deposito, il 49% senza personale adeguatamente formato, il 42% sprovvisto di attrezzature adeguate), i depositi hanno sempre svolto quella che è la funzione principale del museo: la conservazione. Ma, fatte salve le opere che per particolari fragilità necessitano di cautele speciali, la questione, oggi, è poter illuminare un patrimonio escluso dall’attività di valorizzazione di cui il museo dovrebbe farsi promotore nel dialogare con la collettività, ribadendo la sua funzione sociale, nel senso più pieno della missione culturale. Oggi, soluzioni più che convincenti – con punte avveniristiche – per dirimere la questione coinvolgono un numero crescente di istituti, che affrontano il problema adottando strategie condivise o strutturando progetti ad hoc centrati sulla gestione e fruizione dei depositi. Gli studi sull’utilizzo delle collezioni – inteso sia come accesso sia come impiego intellettuale del patrimonio – sono fioriti soprattutto in ambito anglosassone, ma si stanno diffondendo globalmente. Lavorando bene su un deposito (ricordando che il mantenimento di collezioni ingenti riveste anche costi esorbitanti), un museo può presentarsi come istituzione più trasparente e più dinamica.

MUSEI E DEPOSITI: UN PO’ DI STORIA

Prima di passare in rassegna l’attualità per tracciare le prospettive future, è utile riallacciare i fili con l’evoluzione storica dei musei, e dunque dei loro depositi (ci aiutano, in questo percorso, fonti universitarie redatte negli ultimi anni sul tema, con particolare scrupolo, come la tesi di Laurea Magistrale di Ilaria Parini, a.a. 2019/20, Ca’ Foscari, La fruibilità dei depositi nei musei d’arte; o quella di Dario Crapisi, 2020, Politecnico di Torino, Il progetto di un deposito come esperienza museale). Il museo moderno si configura per la prima volta nella seconda metà del Settecento (siamo al British Museum, fondato nel 1759), su impulso del clima illuminato del XVIII secolo, quando la sua missione principale doveva essere l’educazione della società sulla storia e l’identità culturale della propria nazione. La volontà di conservare, dunque, è alla base della nascita dei musei, e a questa esigenza rispondono sin dall’inizio anche i depositi, che però, all’epoca, risentono delle finalità educative del progetto museale: fino alla metà del Novecento, nei “magazzini” vengono relegate sia le opere d’arte che non rispecchiano il valore educativo e morale sia quelle rifiutate dal potere (l’esempio più lampante, in tal senso, ci riporta al periodo della Rivoluzione francese, quando al Musée des Monuments viene portata l’arte ecclesiastica del Medioevo, per raggruppare le opere appartenenti al patrimonio monarchico ed ecclesiastico, mettendo all’indice la produzione dei secoli bui). Al contempo, col fiorire dei grandi musei, nel XIX secolo si pone per la prima volta un problema di spazi: le politiche colonialiste portano a un aumento smisurato delle collezioni, che saturano i depositi, non più adeguati allo scopo. Succede, per esempio, a Berlino, dopo la proclamazione dell’impero tedesco nel 1871. Qui, una figura come Wilhelm Bode si rende protagonista di una imponente campagna di acquisizioni e inizia a ragionare su un criterio di distribuzione delle collezioni più simile a quello odierno: le opere d’arte più celebri saranno esposte al pubblico, quelle che rivestono principalmente un interesse scientifico finiranno in deposito, organizzate per scuole, a uso e consumo degli studiosi. Eco di questa impostazione si ritrova in Francia nel 1930 nei Cahiers de la République de Lettres, de Sciences et des Arts: i capolavori nel percorso museale, i depositi riservati soltanto agli specialisti. Negli stessi anni si inizia a profilare con forza l’inadeguatezza dell’impianto classico del museo, ormai più che congestionato. Se ne discuterà, nel 1934, a Madrid, al primo incontro internazionale di museografia. In questa occasione, lo storico dell’arte Louis Hautecoeur, conservatore dei Musei Nazionali Francesi, proporrà le prime linee guida sull’organizzazione di un deposito. Sono le premesse per lo sviluppo della museologia, disciplina che riflette “sul museo e sulle sue collezioni, sulla storia degli oggetti e sul riflesso che questa storia nascosta deve avere nella loro esposizione e nei vari processi di comunicazione al pubblico”. Nel mezzo, le devastazioni dei conflitti mondiali impongono di sottolineare come i depositi possano rivelarsi essenziali nella salvaguardia del patrimonio (funzione, questa, purtroppo sempre attuale, come dimostra il conflitto in Ucraina). Anche l’esperienza traumatica della guerra sarà propedeutica alla nascita di una nuova coscienza che indirizza la missione museale verso il miglioramento della gestione dei depositi, all’epoca rivelatisi spesso inadeguati a proteggere le opere. Nel 1953 viene pubblicato un rapporto che sancisce le condizioni essenziali per il ripristino dei musei italiani, redatto dall’allora direttore generale delle Antichità e delle Belle Arti, Guglielmo de Angelis. Tra i punti fondamentali del rapporto emergono: la necessità di costruire depositi funzionali per attutire l’accumulo di oggetti, l’importanza di creare spazi da adibire a laboratori di restauro e sale di studio.

PERCHÉ UN DEPOSITO DEV’ESSERE ACCESSIBILE

L’ultima svolta, quella che ci riporta al presente, data agli Anni Settanta, quando si profila l’esigenza di rendere il pubblico partecipe della vita del museo, informandolo innanzitutto su ciò che viene conservato al suo interno. Come concepire la fruizione dei depositi museali conciliando le loro molteplici funzioni, cioè la priorità accordata a chi in deposito fa studio e ricerca – perché non esisterebbero le esposizioni permanenti senza il grande lavoro di ricerca condotto in deposito – con la volontà di coinvolgere attivamente il grande pubblico? Nel 1976, il museo etnografico della British Columbia University di Vancouver progetta il primo deposito completamente accessibile ai visitatori. E sempre l’America, negli Anni Ottanta, si rivela il terreno più fertile per esperienze analoghe. Fin dalle origini, infatti, il museo americano manifesta un orientamento al pubblico molto più marcato rispetto a quello europeo. Attorno alle classiche funzioni di conservazione ed esposizione degli oggetti artistici, si apre una gamma di altre funzioni che evidenzia la priorità della missione didattica. E i depositi ne sono motore. A Washington, non a caso, si tiene la prima conferenza ICOM dedicata ai depositi museali, da cui discende un testo di riferimento come Museum Collection Storage (1979) di Verner Johnson e Horgan: se fino a quel momento ci si era concentrati sulla finalità conservativa dei depositi (si veda la conferenza Unesco del 1968), nella capitale degli Stati Uniti si inizia a parlare anche di accessibilità.

VISIBLE & OPEN STORAGE

Le opzioni più perseguite, in origine, sono quelle dei visible o degli open storage. Nel primo caso, il deposito è integrato nel percorso museale attraverso una oculata progettazione degli spazi. Emblematici sono i visible storage fondati dalla Henry Luce Foundation in quattro grandi istituzioni statunitensi: il Metropolitan Museum of Art nel 1988, la New York Historical Society nel 2000, il Brooklyn Museum nel 2005 e lo Smithsonian American Art Museum nel 2006. In Europa, invece, l’esempio precoce è quello del Victoria and Albert Museum di Londra. Il progetto viene realizzato nel 2010 dall’Opera Amsterdam Architects al sesto piano della sede storica del museo: le vetrine sono organizzate per consentire la fruizione di un’ampia collezione di ceramiche, ma il sistema non ostacola l’intervento di conservatori e studiosi. Anche la Francia dice la sua: il Musée du quai Branly di Parigi, progettato nel 2006 da Jean Nouvel, ospita la collezione etnografica di arte e cultura autoctona di Africa, Asia, Oceania e America. In una scenografica torre di vetro, alta 27 metri e divisa in sei livelli, sono esposti con la formula del visible storage 10mila strumenti musicali della collezione etnomusicologica. L’open storage segnala invece l’apertura di un deposito preesistente – che molto spesso coincide con quello storico – al pubblico. In Italia la Galleria Borghese di Roma è stata una delle prime istituzioni ad agire in tal senso, distinguendosi per la peculiarità del deposito collocato al terzo piano del museo, allestito come una seconda pinacoteca, quasi fosse un prolungamento della collezione permanente. I visitatori, previa prenotazione, possono essere accompagnati da una guida alla scoperta di questa ricchissima quadreria. Al modello dell’open storage aderisce sin dalla sua fondazione anche il MUDEC di Milano, che nasce proprio con l’obiettivo di accogliere e rendere accessibili le nutrite collezioni raccolte nel corso del Novecento nei depositi del Castello Sforzesco. A sua volta, il Museo delle Culture dispone di un deposito progettato appositamente affinché il pubblico possa visitarlo: collocato al piano terra dell’edificio, è organizzato con diversi dispositivi – contenitori, armadi, cassettiere e griglie – e ordinato secondo i criteri geografico-culturali e tipologico-stilistici. Solo nel XXI secolo, inoltre, si è iniziato a ragionare di deposito-museo (quando la collezione conservata in deposito confluisce in un nuovo museo, con l’obiettivo di renderla fruibile) e di collection center (prendendo spunto dai depositi centralizzati sviluppati nel Nord Europa, come quello progettato in Danimarca secondo i canoni dell’architettura ecosostenibile nel 2003, a Vejle, che riunisce le opere di ben 16 musei. In Italia l’idea è stata utile per realizzare nel 2012 un deposito d’emergenza post terremoto nel Palazzo Ducale di Sassuolo, in Emilia), applicando al contempo le nuove tecnologie alla sfida della divulgazione delle collezioni non esposte, fruibili anche online grazie alla digitalizzazione del patrimonio (un esempio di open storage digitale è quello avviato, nel 2021, dalla Collezione Maramotti, con la pubblicazione su YouTube e social di una serie di video dedicati a opere conservate nell’archivio della collezione).

LA RIVOLUZIONE DEL DEPOT DI ROTTERDAM

Il caso più eclatante di deposito-museo, che ha prepotentemente acceso i riflettori sul tema, è il Depot Boijmans inaugurato a Rotterdam nell’autunno 2021, risultato spettacolare – a firma MVRDV – di un lavoro avviato anni fa per l’urgenza di trasferire il deposito del museo Boijmans Van Beuningen – che espone soltanto il 7% delle opere dell’intera collezione – in un luogo sicuro, a seguito dell’inondazione che lo colpì nel 1999. Frutto di un sistema di finanziamento che vede collaborare pubblico e privato, il “contenitore” si presenta come un’imponente struttura riflettente, coronata da una terrazza giardino. Gli spazi, adeguatamente attrezzati per non confliggere con la funzione conservativa, sono stati modulati per offrire un’ampia gamma di servizi al visitatore: il percorso consente una visione totale delle collezioni, attraverso i tre piani che alternano laboratori di restauro e spazi espositivi; i dipinti sono esibiti su rastrelliere, i disegni, le stampe e le fotografie, che non possono essere esposti a lungo, sono conservati in sale chiuse al pubblico, ma è possibile fare richiesta per vederli. Le opere sono disposte secondo la tipologia e le esigenze climatiche, piuttosto che per epoca o movimento artistico, e questo modifica l’approccio di chi guarda, stavolta nella posizione di interrogarsi concretamente sulla funzione scientifica e conservativa di un museo. Al piano principale si trovano anche la caffetteria e i servizi per il pubblico, mentre in terrazza, dove spicca il giardino delle sculture, si arriva per ammirare la città dall’alto e per godere della cucina del giovane chef Jim de Jong, al ristorante Renilde. A tutto questo si aggiunge un servizio offerto ai collezionisti privati, che al Depot possono trovare ospitalità per le proprie opere. Un precedente potrebbe essere individuato nel Centre de Conservation du Louvre di Liévin, inaugurato nel 2016 in prossimità del Louvre Lens e progettato da SANAA come sede distaccata (con laboratorio di restauro visitabile e depositi parzialmente accessibili) del museo parigino, essa stessa concepita per riallocare la sconfinata collezione del Louvre. Il Centre de Conservation, invece, dovrà accogliere le opere di una sessantina di depositi del circuito del Louvre, stimate in 250mila oggetti: l’operazione è ancora in corso e terminerà, probabilmente, solo nel 2025. L’anno precedente, invece, dovrebbe inaugurare la V&A East Storehouse progettata a Londra da Diller Scofidio + Renfro, questa sì molto vicina, nell’approccio alle collezioni museali e nei servizi offerti al visitatore, al Depot di Rotterdam. Il nuovo edificio di Here East, nell’area del parco olimpico del 2012, renderà accessibili al pubblico 250mila oggetti, 350mila libri e mille archivi in arrivo dai depositi del Victoria and Albert Museum, qui sistemati in ambienti adibiti alla conservazione, per preservarli e per consentire ai visitatori di scoprire da vicino le dinamiche che regolano un museo dietro le quinte.

DEPOSITI MUSEALI. LA SITUAZIONE IN ITALIA

In Italia, i musei nascono in gran parte all’interno delle mura dei palazzi storici e non in edifici appositamente progettati. Questo vincolo ha sempre procurato non pochi problemi, specie davanti all’aumentare indiscriminato delle collezioni (ricordando che in Italia l’art. 54 del Codice dei Beni Culturali prevede l’inalienabilità dei beni, inibendo lo strumento del deacessioning, diffuso nel mondo anglosassone), con la difficoltà di adibire e organizzare depositi funzionali. L’attenzione si è concentrata sull’importanza di rendere fruibili i depositi con molto ritardo, negli ultimi vent’anni, e la strategia più utilizzata per rendere accessibile il maggior numero di opere possibile è stata (ed è) quella della rotazione. Nel 2019, nella Matera Capitale europea della cultura, la giornata di studi L’essenziale è invisibile agli occhi, organizzata da ICOM, ha posto l’attenzione sulle potenzialità dei depositi museali, “tra cura e ricerca”. Passaggio fondamentale dell’incontro è la definizione dei depositi come “risorse invisibili, nodi cruciali della prassi museale attuale, occasioni per operare in una logica multidisciplinare, spazi di studio e ricerca e presidi di tutela attiva e luoghi di inserimento occupazionale delle professionalità museali”. Recependo questi stimoli, varie esperienze messe in campo negli ultimissimi anni fanno guardare positivamente al futuro. È il caso della Galleria degli Uffizi, che conserva in deposito l’80% delle sue collezioni. L’apertura di nuove sale nell’autunno 2021 ha consentito di ampliare l’esposizione permanente e presto si provvederà a riallestire la collezione di autoritratti attualmente visitabile solo su appuntamento. Ma è l’operazione Uffizi Diffusi l’iniziativa più lungimirante, fortemente voluta dal direttore Eike Schmidt, strenuo sostenitore della necessità di dislocare sul territorio le opere finora chiuse nei depositi, allestendo nuove sedi museali regionali che diano respiro ad aree escluse dai circuiti turistici. Punta di diamante del progetto sarà il recupero della medicea Villa dell’Ambrogiana di Montelupo Fiorentino per farne un centro espositivo delle opere in arrivo dai depositi degli Uffizi, in un contesto di grande pregio storico-artistico (a 24 milioni di euro ammonta il finanziamento condiviso in parti uguali dal MiC e dalla Regione Toscana, tre-quattro anni saranno necessari per completare il progetto). Work in progress anche al MANN di Napoli, i cui storici depositi nel sottotetto – ribattezzati negli Anni Settanta Sing Sing per la peculiare conformazione strutturale – sono stati recentemente “illuminati” dal progetto fotografico di Luigi Spina. L’idea del direttore Paolo Giulierini è quella di trasformarli in una sezione visitabile del museo. Ma ci si muove anche a livello amministrativo. Alle finalità del progetto comunale varato a Pordenone su impulso dell’assessore alla Cultura Alberto Parigi – per recuperare il patrimonio nascosto nei depositi dei Musei Civici, con un programma di mostre cittadine – risponde su scala nazionale il progetto 100 opere tornano a casa, che vede il Ministero della Cultura collaborare con Rai Documentari. L’iniziativa ha preso le mosse a dicembre 2021 e prevede di trasferire temporaneamente le opere conservate nei depositi di grandi istituzioni museali in piccoli musei di aree interne, così da renderle visibili al pubblico e al contempo favorire nuove economie di territorio. Partecipano 14 istituti tra i più importanti d’Italia e 28 – per cominciare – sono i piccoli musei coinvolti, con l’opportunità di creare “nuovi percorsi attrattivi e itinerari turistici”, come auspicato dal ministro Dario Franceschini. Nel ripensare la centralità dei loro depositi, dunque, i musei d’Italia e di tutto il mondo si mettono in discussione, con l’idea di aprirsi alla comunità per disegnare un futuro accessibile e inclusivo.

LA FUNZIONE DEL DEPOSITO. RISPONDE MARINA PUGLIESE, DIRETTRICE DEL MUDEC DI MILANO

Che patrimonio conservano i vostri depositi museali in rapporto all’intera collezione? Al MUDEC abbiamo circa 8.500 oggetti in deposito e 500 esposti. Nella gestione e nella vita di un museo oggi, il deposito è più una risorsa o più un limite? Perché? Molti musei etnografici come il MUDEC, in virtù della varietà del patrimonio che custodiscono, hanno depositi visitabili, facendo dunque dello storage una risorsa complementare al percorso espositivo. Qual è la strategia migliore per far vivere un deposito museale? Renderlo almeno parzialmente fruibile, creando visite speciali che diano ai visitatori la possibilità di accedere a un “dietro le quinte” della vita del museo. Con quale criterio un’opera resta in deposito anziché essere esposta? C’è un programma di rotazione almeno parziale fra opere esposte e opere in deposito? Certamente, le opere ruotano sia attraverso i nuovi percorsi delle collezioni, sia attraverso le occasioni espositive di approfondimento. Del resto, in generale ma per i musei delle culture del mondo in particolar modo, il superamento di una narrazione univoca ed eurocentrica comporta la necessità di sperimentare letture diverse delle collezioni. Negli ultimi anni avete adottato delle soluzioni che vanno nella direzione di facilitare l’accesso e la fruizione delle opere conservate in deposito? Sin dall’apertura del MUDEC, nel 2015, abbiamo pensato alle collezioni e al deposito visitabile in termini di complementarietà, attivando delle visite guidate del deposito con tagli e racconti specifici (ad esempio improntate sulle questioni conservative). Lavorare su soluzioni di open storage è fattibile con le risorse economiche e gli spazi a disposizione? È certamente più facile se, come nel caso del MUDEC, l’open storage viene concepito quando si progetta l’architettura museale, in quanto vanno considerati molti fattori quali gli accessi e la sicurezza. I vostri depositi sono fruibili a distanza, magari grazie alla digitalizzazione? No, stiamo lavorando alla digitalizzazione del patrimonio e quindi all’accessibilità online delle singole opere, ma non credo sia opportuno rendere i depositi fruibili a distanza, per questioni di sicurezza. https://www.mudec.it/ita/

LA FUNZIONE DEL DEPOSITO. RISPONDE EIKE SCHMIDT, DIRETTORE DEGLI UFFIZI DI FIRENZE

Che patrimonio conservano i vostri depositi museali in rapporto all’intera collezione? Tra mobili, quadri e statue, sicuramente parliamo di una quota superiore all’80%: meno del 20% delle nostre collezioni è esposto, anche se negli ultimi anni abbiamo ampliato il numero grazie alle nuove sale, e continueremo a farlo nei prossimi mesi e anni sia agli Uffizi che a Palazzo Pitti. Poi conserviamo anche molte opere d’arte che vale la pena esporre in altri contesti, in alcuni casi parliamo di capolavori, e per questo abbiamo sviluppato la strategia degli Uffizi Diffusi. Qual è la strategia migliore per far vivere un deposito museale? Bisogna utilizzare più di una sola strategia, nell’Ottocento c’era la moda delle gallerie secondarie, a distinguere i capolavori di una presunta serie A dalle opere di serie B, all’epoca davvero poco valorizzate dall’allestimento. Tutto questo oggi è superato, ma sono convinto che sia importante studiare ogni soluzione per mostrare il patrimonio in deposito: disporre di depositi non accessibili è frustrante. Dunque ricorriamo innanzitutto alla rotazione, penso alle opere tessili, come gli arazzi, e alla collezione di autoritratti che presto inaugureremo nell’edificio principale. Ma credo molto anche nello strumento dell’allestimento dislocato, inteso come vera e propria operazione scientifica: l’abbiamo concretizzato – e continueremo a farlo – con il progetto Uffizi Diffusi, che è vincente, e si potrebbe copiare nel mondo. L’idea è quella di esporre opere finora inaccessibili in luoghi più vicini a dove le persone vivono e lavorano. Tra le strategie a monte, però, non bisogna dimenticare il restauro: spesso le opere d’arte dei depositi non sono subito disponibili, dunque non basta avere un luogo sicuro dove esporle, ci vuole un serio investimento nel restauro. Molte opere non sono mai state esposte per questo motivo. Con quale criterio un’opera resta in deposito anziché essere esposta? C’è un programma di rotazione almeno parziale fra opere esposte e opere in deposito? C’è da considerare innanzitutto la peculiarità di alcuni oggetti: il nostro nucleo di 180mila tra disegni e stampe non potrà mai essere esposto in maniera continuativa, dunque ruota una volta ogni cinque anni. In linea generale, per la maggior parte delle opere in deposito non è ipotizzabile una strategia oggettiva di esposizione, tutto discende dalla ricerca. Nel corso dei decenni, i curatori hanno studiato il nostro patrimonio, fatto dei ritrovamenti. È fondamentale sviluppare programmi di ricerca sulla propria collezione, perché il museo non è preposto solo alla tutela: la ricerca, nei musei, è il motore della scoperta. Attinge dai depositi e al tempo stesso contribuisce a valorizzarne le opere. Come nell’archeologia lo scavo dev’essere un processo scientifico, lo stesso vale per lo scavo metaforico nei depositi, che deve essere guidato da principi scientifici. In parallelo bisogna fare ricerca archivistica, che per fortuna in Italia è quasi sempre possibile. Da queste azioni discendono operazioni di restauro e mostre ed esposizioni temporanee. Lavorare su soluzioni di open storage è fattibile con le risorse economiche e gli spazi a disposizione? Tutto è relativo, a volte anche cifre che sembrano imponenti possono rivelarsi più che giustificate, mentre nel reperire gli spazi ci si può muovere con intelligenza, anche in funzione del recupero di strutture inutilizzate. Dunque, se pensiamo a un progetto come il Depot di Rotterdam, parliamo di spese di realizzazione e mantenimento enormi, difficilmente emulabili. Ma calandoci nel nostro contesto, prendo l’esempio del progetto più costoso che stiamo seguendo: il recupero della Villa dell’Ambrogiana di Montelupo, la più grande villa medicea tra tutte, immersa nel paesaggio, con accesso diretto dall’Arno. Per restaurarla sono stati stanziati 12 milioni di euro dal MiC, cui si aggiungono i 12 milioni di finanziamento della Regione Toscana. Potrà ospitare più di mille opere d’arte in arrivo dai depositi degli Uffizi, in una posizione strategica tra i due aeroporti di Firenze e Pisa, non distante da Livorno, in un’area che dunque beneficerà di nuovi flussi turistici, con ricadute positive sull’economia del territorio. Ecco come costi che sembrano esorbitanti si rivelano “irrisori” al cospetto di investimenti che non scendono sotto al mezzo miliardo per gran parte dei musei costruiti ex novo negli ultimi dieci anni. I vostri depositi sono fruibili a distanza, magari grazie alla digitalizzazione? Già dagli Anni Novanta la sovrintendenza di Firenze ha sviluppato un progetto di digitalizzazione, che ci vede partecipare con le nostre collezioni. Sul sito degli Uffizi sono disponibili oltre 600mila foto e schede delle nostre opere. https://www.uffizi.it/

LA FUNZIONE DEL DEPOSITO. RISPONDE FRANCESCA CAPPELLETTI, DIRETTRICE DELLA GALLERIA BORGHESE DI ROMA

Che patrimonio conservano i vostri depositi museali in rapporto all’intera collezione? I depositi della Galleria Borghese contengono circa duecento pezzi, che non trovano posto nelle sale o che sono “in osservazione” per motivi di studio, conservazione, restauro. Nella gestione e nella vita di un museo oggi, il deposito è più una risorsa o più un limite? Perché? I depositi sono senz’altro una risorsa: il nostro è organizzato come una quadreria, le opere sono tutte a vista… È un luogo fantastico, di osservazione ravvicinata e di contatto per esempio con le opere di piccole dimensioni, che sono conservate all’interno di vetrine. Qual è la strategia migliore per far vivere un deposito museale? Il miglior modo è di passarci tempo per studiare e di aprirlo, quando possibile, al pubblico. Con quale criterio un’opera resta in deposito anziché essere esposta? C’è un programma di rotazione almeno parziale fra opere esposte e opere in deposito? Ultimamente abbiamo varato il progetto Alla Galleria Borghese i quadri scendono le scale, che prevede l’esposizione al pubblico, in una sala della Pinacoteca, di dipinti tratti dal deposito. Li abbiamo alternati finora tre volte, ogni tre settimane. Anche i quadri di dimensioni più grandi ogni tanto vengono alternati nelle sale, in modo che tutti possano essere visti dal pubblico con regolarità. Negli ultimi anni avete adottato delle soluzioni che vanno nella direzione di facilitare l’accesso e la fruizione delle opere conservate in deposito? Prima del Covid c’era la possibilità di prenotare visite guidate e certamente la ripristineremo appena possibile. Lavorare su soluzioni di open storage è fattibile con le risorse economiche e gli spazi a disposizione? Sì, abbiamo formulato un progetto di rinnovamento e accessibilità dei depositi, che avrà luogo nei prossimi anni e che certamente cambierà la maniera in cui potranno essere visitati. I vostri depositi sono fruibili a distanza, magari grazie alla digitalizzazione? Siamo stati fra i primi musei a proporre una conoscenza online dei depositi, con riprese al loro interno e con la divulgazione delle principali attività che ospitano. https://galleriaborghese.beniculturali.it/

LA FUNZIONE DEL DEPOSITO. RISPONDE PAOLO GIULIERINI, DIRETTORE DEL MANN DI NAPOLI

Che patrimonio conservano i vostri depositi museali in rapporto all’intera collezione? Il complesso dei depositi, ripartito tra oggetti di vita quotidiana, statue, affreschi, ceramiche e monete, rappresenta circa il 70% dell’intero patrimonio. Nella gestione e nella vita di un museo oggi, il deposito è più una risorsa o più un limite? Si tratta di una risorsa. Dobbiamo però uscire dall’idea superficiale di esporre tutto. In primo luogo per evitare l’effetto dell’infinita ripetitività che distoglie l’attenzione; inoltre perché, se correttamente allestiti, i depositi diventano un luogo formidabile di studio, ricerca, ma anche visita periodica del pubblico. Da questi nuclei possono generarsi inoltre infinite mostre, tante quante ne produce l’Archeologico a Napoli, in Italia e nel mondo. Qual è la strategia migliore per far vivere un deposito museale? Anzitutto censirlo e controllarlo digitalmente; di seguito ordinarlo, renderlo accessibile, sicuro, gradevole anche sotto il profilo grafico. Condividere i dati in piattaforme aperte (escludendo i dati sensibili) è poi il modo più efficace per connettersi con tutto il mondo, generando infinite possibilità di studio e valorizzazione. Oltre alle mostre degli oggetti si possono però creare esposizioni artistiche, come di recente abbiamo fatto con una personale di Luigi Spina dedicata a Sing Sing, il nostro deposito più noto. Con quale criterio un’opera resta in deposito anziché essere esposta? C’è un programma di rotazione almeno parziale fra opere esposte e opere in deposito? Normalmente l’opera resta in deposito, fatta salva la disponibilità di spazi, quando è una replica che non aggiunge altro agli oggetti già esposti. Nel nostro caso abbiamo, ad esempio, migliaia di recipienti in terracotta o bronzo provenienti da Pompei che sarebbero illeggibili se ammassati in una esposizione. A meno che non volessimo, all’inverso, puntare sul tema della ricchezza e del numero. Questa scelta l’abbiamo fatta, ad esempio, per la costituenda sezione delle oreficerie: ma con i gioielli è un altro mondo. Le opere comunque ruotano ciclicamente tramite mostre interne, prestiti singoli e mostre organizzate dal MANN in tutto il mondo. Negli ultimi anni avete adottato delle soluzioni che vanno nella direzione di facilitare l’accesso e la fruizione delle opere conservate in deposito? Stiamo da tempo lavorando a un programma di digitalizzazione completa delle opere, studio dei corretti parametri di conservazione, riordino dei materiali anche con corrette protezioni antisismiche. I nostri interlocutori sono di primo livello: musei olandesi, americani, giapponesi, il Dipartimento di Ingegneria dell’Università Federico II di Napoli per la prevenzione in caso di terremoto. Lavorare su soluzioni di open storage è fattibile con le risorse economiche e gli spazi a disposizione? Certamente sì. Però bisogna prima conoscere a fondo e proteggere ciò che si offre al pubblico. Operazioni spot periodiche hanno poco senso. I vostri depositi sono fruibili a distanza, magari grazie alla digitalizzazione? Mi viene da pensare al progetto MANN in Colours che presto fornirà un database sul mondo del colore delle statue (sia esposte che non). L’Europa tramite i fondi PON e il PNRR sta investendo molto su questo patrimonio. Entro il 2022 avremo 200mila schede online dei nostri materiali. Non sarà più un problema di metri quadri, perché nel web non c’è problema di spazio e sorveglianza e lì i musei possono crescere a dismisura. https://mann-napoli.it/

By Livia Montagnoli – artribune.com

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