Tartaglia Arte: Intervista con il grafico. Parola a Roberto Maria Clemente

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’articolo ricevuto da Tartaglia Arte:

REPORTAGE DI ARTRIBUNE DAL MONDO DELLA GRAFICA ITALIANA. STAVOLTA A ESSERE INTERVISTATO È ROBERTO MARIA CLEMENTE.

Roberto Maria Clemente, Lorenzo Lotto, Reggia di Venaria, 2013

Laureato in architettura al Politecnico di Torino, Roberto Maria Clemente è stato fondatore e art director dello style magazine Label (1998-2007). Dal 2018, dopo vent’anni sotto altro nome, il suo studio firma i progetti come FIONDA, occupandosi principalmente di comunicazione in ambito culturale e sociale. Dal 2015 è referente torinese del network internazionale Creative Mornings, che produce eventi mensili legati alla creatività. Dal 2017 è co-fondatore di Fflag, uno spazio multidisciplinare a Torino che espone progetti di arti applicate contemporanee. Recentemente ha curato la mostra BemyCover, sulla copertine dei libri del gruppo editoriale Penguin Random House negli ultimi dieci anni. È anche membro del gruppo musicale d’avanguardia Larsen e della sua filiazione XXL (XiuXiuLarsen). In ambito museale e artistico ha lavorato a Torino con il Museo Egizio, il Museo d’Arte Orientale, il Museo di Arti Applicate Oggi, Artissima, FLAT, la Biennale Internazionale di Arte Giovane, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, il Museo Regionale di Scienze Naturali, la Reggia di Venaria, il Museo Ferrari a Maranello, il Cesac di Caraglio, il Centre Coréagraphique National a Nantes e l’Irish Museum of Modern Art a Dublino. In ambito sociale ha sviluppato progetti urbani di lunga durata per target allargati sui quartieri San Salvario, Borgo San Paolo e Barriera di Milano, oltre a numerosi altri progetti con il Comune di Torino e con la Regione Piemonte; a Milano ha curato il progetto grafico del magazine POP! destinato agli inquilini delle case popolari delle Metropolitane Milanesi. Insegna Storia della grafica e Magazine Design alla NABA di Milano e Basic Design a MADE Program a Siracusa.


Le tue collaborazioni da graphic designer con il mondo dell’arte sono molte sin da quando hai fondato nel 1998, con Carlo Miano e Luca Ballarini, lo studio Bellissimo. Dal 2009 avete lavorato in unità distinte mantenendo nomi “vicini” e nel 2018 hai aperto Fionda. Questa nuova stagione si è inaugurata con il progetto di comunicazione per Artissima 2018. Come hai affrontato questo incarico, che ti ha portato a lavorare sulla prevalenza delle immagini sul lettering? 

Il fatto di essere stati preceduti da uno dei migliori progettisti degli ultimi anni della scena grafica internazionale di per sé era una grande responsabilità. Leonardo Sonnoli aveva sviluppato una identity per Artissima molto flessibile, generata da composizione grafica-tipografica a mio modo di vedere insieme rigorosa e “asciutta”: per il tema del 25esimo anniversario noi immaginavano qualcosa di più leggero e ironico. La scelta era anche collegata all’altro compito che avevamo: raccontare la storia di Artissima nei suoi 25 anni di attività.


Roberto Maria Clemente, BIG, 2002

Come avete lavorato? 

Ci siamo resi conto che il materiale in archivio era poco e che le varie identità precedenti della fiera erano molto distanti l’una dall’altra. Quindi dovevamo trovare un linguaggio che le uniformasse e abbiamo pensato all’utilizzo delle “toppe”. È un’idea a cavallo tra pop e trash, inteso in modo affettuoso. È un’idea visiva che pensavamo si sarebbe fatta notare proprio perché crea un contrasto sottilmente ironico con le tendenze degli ultimi anni della comunicazione dell’arte contemporanea, dove trionfa un’estetica minimalista e concettuale, spesso risolta con la tipografia. L’idea delle toppe è risultata calzante perché propone un’unica identità fatta da tante facce e stratificazioni, a cui si è aggiunta la dimensione temporale, attraverso uno svelamento progressivo, partendo dalla silhouette grafica di una toppa. Il risultato è stata un’immagine distante dalle edizioni precedenti ma che si riconnette un po’ al passato recente attraverso gli elementi principali della identity introdotti da Sonnoli.


Qui si apre una questione squisitamente contestuale con il nostro tempo, con i social network e con il loro essere in presa diretta. Hai parlato per Artissima della novità di raccontare nel tempo come un’immagine si trasforma e completa. Qual è il beneficio rispetto alla comunicazione e all’idea? 

Il fatto di poter narrare nel tempo una storia permette un coinvolgimento maggiore del pubblico, anche perché offre spunti per un racconto continuativo di cui i progetti di comunicazione invocano sempre più la necessità. Non tutte le storie però si possono narrare in questo modo. Così come non a tutti i progetti che realizziamo possiamo applicare la dimensione ironica, che credo sia un ingrediente specifico del nostro modo di lavorare.


FIONDA (Roberto Maria Clemente), Artissima 2018, visual

Cosa intendi per approccio grafico legato all’ironia? 

Semplifico: l’ironia è quella cosa che ti permette di guardare a una cosa sbagliata come se fosse al posto giusto, oppure la cosa sbagliata al posto sbagliato che poi diventa giusta. È un approccio che credo derivi da un percorso da autodidatta (io ho una laurea in architettura): mi sono avvicinato alla comunicazione molto tardi, dopo aver attraversato mondi culturali d’interesse grazie alla musica del dopo-punk. Il nostro studio di comunicazione nella formazione originaria è nato vent’anni fa come sviluppo dell’autoproduzione di una rivista, LABEL, forse il primo style magazine italiano, con forti legami con la cultura giovanile e il mondo musicale: lì potevamo lavorare su schegge di idee, sperimentare su idee potentissime ma di difficile applicazione commerciale, o riciclare spunti laterali che non avrebbero avuto una seconda vita. Nel giro di pochissimi anni alcune committenze in ambito artistico e istituzionale si sono accorte della diversità del nostro modo di comunicare.


Quali sono state le prime committenze nel mondo dell’arte?

 Nel 2002 abbiamo lavorato per BIG, la Biennale Internazionale Arte Giovane, dove abbiamo collaborato con Michelangelo Pistoletto e con i CALC, un gruppo di curatori legati a Michelangelo, facendo un uso dell’ironia in dosi abbondanti. L’immagine principale che abbiamo ideato nasceva dal giocare con una forma ideata da Pistoletto, ottenuta disegnando i punti sulla mappa in cui si sarebbero svolti gli interventi principali a Torino e che a noi appariva una forma leggibile in modi diversi, come un’astronave o un alambicco o come altro ancora: per la comunicazione principale abbiamo immaginato un cane che salta per agguantare quella strana forma. Sempre nel 2002 abbiamo realizzato l’identità visiva e la comunicazione per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo che apriva una nuova sede a Torino, diventando un nuovo polo anche per la mappa cittadina dell’arte. A posteriori mi piace ricordare la segnaletica interna tracciata con lettere di grandi dimensioni campite a mano con un riempimento a matita. Poche scritte però fatte a mano su grande scala, a mio parere intervento filologicamente corretto, considerato anche il progetto minimalista di Claudio Silvestrin per la sede. Erano i nostri primi lavori nell’ambito della segnaletica, oggi diventata una delle aree progettuali su cui abbiamo più occasione di lavorare.


FIONDA (Roberto Maria Clemente), FLAT, 2018

Lavorare sulla comunicazione delle mostre è un aspetto che hai coltivato molto negli ultimi anni. Sono anche mostre storiche e molto diverse tra di loro, che ti costringono a pensare a una comunicazione differente e contestuale, come quella alla Venaria per Lorenzo Lotto o la mostra di Leonardo da Vinci. Da dove deriva questa scelta per una o l’altra mostra? 

Quando si lavora per le mostre storiche ci si pone sempre la domanda di come la grafica contemporanea debba rappresentare i secoli scorsi senza eccedere in stucchevole neutralità, omaggi passatisti o derive modaiole. Io trovo molto affascinante il lavoro di ricerca, volta per volta, di un equilibrio e del giusto registro. Ma lo è anche su soggetti contemporanei: recentemente abbiamo lavorato al riallestimento del Museo Ferrari di Maranello ed è stato altrettanto sfidante cercare di combinare la dimensione sportiva con quella del lusso, camminando sul filo dell’eleganza. Tornando alla tua domanda, nel caso della mostra di Leonardo (2011) era molto complicato attingere da un materiale così conosciuto e trasformarlo in maniera insieme rispettosa e originale. Per la mostra di Lorenzo Lotto (2013) abbiamo lavorato sulla dimensione ironica di cui parlavamo, anche se non è magari subito leggibile. La forma-base del progetto grafico allestitivo era un 8, scelta per via del nome “Lotto”. La forma di per sé funzionava bene, che il tratto ironico fosse leggibile a tutti non era importante, era la storia “nascosta” a divertirci in un contesto cosi istituzionale. Il tema della veste grafica per progetti di mostre è un tema sempre affascinante, dove spesso si aprono inaspettati spazi di compiacimento e creatività, dove ci si può divertire insomma. Sempre a Venaria, per la mostra sui Fabergé, i quindici totem con le informazioni di sala contenevano ognuno, nello spessore laterale, una texture differente che avevamo disegnato noi, ispirandoci al periodo e al contesto. Non era una richiesta della committenza, che anzi aveva approvato una sola proposta iniziale: diversificandola per quindici volte sapevamo che potevamo contribuire a rendere varia e unica l’esperienza di fruizione del percorso.


Sembra che tu lavori sempre sul cercare un equilibrio tra le forme pure autonome e la loro relazione con lo spettatore. Come è nato il progetto per la fiera del libro d’arte FLAT? 

Il nostro progetto per FLAT partiva da un’eredità importante. Esisteva un logo disegnato affettuosamente per la committenza da Lawrence Weiner, artista visivo americano celeberrimo, che giocava con la sovrapposizione dell’acronimo con il nome per esteso, Fiera Libro d’Arte Torino. Una sorta di logo/non logo, in quanto poco adatto tecnicamente alla funzione di logo. Abbiamo quindi iniziato a ragionare sull’identità visiva entrando da una porta laterale, ragionando sulla interpretazione come sostantivo e come aggettivo, quindi sul senso di spazialità e sulle sfumature di senso legate alla piattezza. Il lettering di Weiner è stato trasformato in materiale ligneo, le lettere schiacciate l’una contro l’altra per rendere l’idea di una piattezza. Poi abbiamo guardato il risultato come se fosse una scultura, creando una contraddizione di punti di vista. FLAT appare più serioso e rigoroso che non Artissima, su questo non c’è dubbio. Ma anche qui l’approccio progettuale è stato piuttosto scanzonato a fronte del contesto.


FIONDA (Roberto Maria Clemente), BemyCover, Strand, New York 2018

Come si collocano, in questa tua ricerca, progetti particolari come la collaborazione con Marzia Migliora al Museo del Novecento a Milano? 

Il lavoro per il Museo del Novecento è nato dall’esigenza di Marzia Migliora di avere un logo per comunicare il progetto sonoro site specific che stava producendo per il museo. Disegnando delle Q (la prima lettera della citazione di Barthes che dava il titolo al progetto) ci siamo accorti casualmente che, facendole ruotare, potevano somigliare a dei cerchi con delle antennine. Apparivano come una forma aliena o antropomorfa che funzionava non solo come logo tipografico, ma si adattava bene come forma fisica per l’hardware delle audioguide: in effetti, nel momento in cui le persone le indossano, appaiono altro da sé, detto in maniera sottile. Ecco che ritorna anche qui una sfumatura ironica, mai troppo sofisticata. Ma questo episodio evidenzia un altro importante driver del mio/nostro progettare, la fede quasi religiosa, quasi cieca, nella forza del “caso”. Quando lavoro, cerco sempre di mettermi in condizioni di predisposizione alla casualità, convinto della possibilità di intercettare o individuare un’idea che non ho progettato ma che sono certo che sarà più potente di altre studiate a tavolino, confidando con una certa sicurezza nel saperla poi guidare, direzionare per portarla a essere un’immagine finale.


È molto bello e pericoloso questo approccio, soprattutto se si pensa alla grafica nel senso del modernismo che doveva portare ordine, dopo la Seconda guerra mondiale, e comunicazione in modo da essere compresa da tutti. Quindi l’idea della gabbia, della griglia e del font.

 Sì, la cosiddetta “scuola svizzera”, erede di funzionalismo e modernismo, che ha informato la didattica nella grafica da entrambi i lati dell’Oceano. Ma, già dagli Anni Settanta, Weingart inizia a progettare partendo dalle “gabbie” per provare a scardinarle – quell’idea di superamento e non di contrapposizione della regola mi ha sempre affascinato. Poi dipende molto da quanto si è consapevoli dei propri limiti e io ammetto che la gabbia non sta troppo nella mia formazione da autodidatta. Spesso mi confronto con dei miei colleghi amici, come Massimo Pitis (art director di Wired e progettista della identity del Museo del Novecento), sulla necessità della gabbia già da inizio progetto e ti confesso che a fatica saprei disegnarne una a memoria. Quando abbiamo iniziato a disegnare LABEL non avevamo nessuna idea dei fondamenti della grafica, per cui era la grande improvvisazione a farci sentire a nostro agio, tanto da diventare un punto di forza. È chiaro che il progetto di una rivista è diverso da quello di un libro, quindi in alcuni nostri progetti qualche gabbia la vedi.


Rispetto a questa necessità del grafico di mediare un concetto, di farsi mediatore tra committente e fruitore, vorrei che mi parlassi del progetto Be My Cover.

È un caso che ha innescato delle relazioni e che ho scoperto poi aver colmato un vuoto. Nel 2017, avendo trasferito da poco il nostro studio in uno spazio più grande, insieme ad altri due studi d’architettura (Archicura e WNA), con il progetto comune di organizzare mostre sotto il nome di FFLAG, ho pensato che, essendo in prossimità del Salone del Libro, sarebbe stato interessante inaugurarlo con una mostra dalla produzione fast and cheap: perché non presentare le migliori copertine di libri, selezionate secondo il mio giudizio, attingendo da un solo gruppo editoriale di grande tradizione e legato a una fama di qualità, circoscrivendo l’arco temporale agli ultimi dieci anni, quindi alla contemporaneità: la Penguin Random House faceva al caso nostro. Il risultato è stato assai seducente, perché un insieme di cento copertine scelte per la loro bellezza progettuale, messe una accanto all’altra, generano un effetto di pienezza percettiva entusiasmante, rileggendo quello stesso oggetto quotidiano che vediamo in libreria mai però coordinato sulla base di un principio estetico. Nel mondo della grafica, peraltro, i designer specializzati in copertine dei libri raramente sono figure principali, con l’unica eccezione di Chip Kidd (che era presente in mostra), un designer americano reso celebre anche da un paio di TED Talks supervisualizzati, in cui ha sottolineato come il libro sia un oggetto fisico di cui abbiamo perso il gusto per i piaceri della sua multisensorialità. La copertina di un libro è, curiosamente, un tema di discussione relegato perlopiù all’interno di blog di settore. Ma, in verità, quella di inventarsi un linguaggio sempre differente rinnovandosi a ogni incarico progettuale, giocandosi tutto con una sola immagine, è una vera impresa.


Torniamo a Be My Cover

Il tutto si è attivato quando ho chiesto alla PRH (che include 250 case editrici) una sorta di supporto nella ricerca dei titoli che avevo iniziato a selezionare. Questa richiesta è stata accolta in maniera seria da Fabrizio La Rocca, uno dei direttori creativi del gruppo e, dopo qualche settimana di lavoro, è emerso un altro colpo di fortuna: la compagine americana e quella inglese avevano un rapporto non così consolidato (è del 2012 la fusione tra Penguin e Random House) e quindi la mostra, da noi concepita e prodotta in casa, in realtà materializzava una volontà di appartenenza di un insieme editoriale che ancora non aveva avuto un’esposizione mediatica attraverso il filtro del design. Alla fine i risultati sono stati così soddisfacenti che il progetto Be My Cover è stato acquisito dalla PRH, sotto la curatela mia e di Fabrizio, al punto da svilupparne nel 2018 un adattamento “da sogno”, all’ultimo piano di Strand, il leggendario bookstore di New York durante il mese del design. Come se non bastasse, abbiamo avuto anche una serata sold out, grazie a un talk che vedeva ospiti alcuni dei migliori jacket designer che lavorano per la PRH, tra cui Peter Mendelsund, che suggerisco di conoscere. Nel frattempo dentro FFLAG abbiamo ospitato una installazione di uno dei miei miti personali, Erik Kessels, e una mostra del duo grafico parigino Helmo, di cui amo il lavoro. La direzione è quella di uno spazio solo espositivo dove i progetti vengono presentati per l’originalità e per l’eccellenza qualitativa, senza passare attraverso il filtro di un giudizio artistico. Quasi una galleria di arti applicate.


FIONDA (Roberto Maria Clemente), Museo Ferrari, 2018

Come è il tuo confronto con l’insegnamento? Su cosa fai lavorare i tuoi studenti?

 Lavoro da circa dieci anni alla NABA a Milano, ma anche in altre accademie. Per me è un continuo chiedermi come fare ad accendere la curiosità dei ragazzi della nuova generazione, anche se ogni anno ti rendi conto che il paradigma cambia. Quindi bisogna far capire loro che studiando storia della grafica si possono individuare una serie di tesori che sono stati abbandonati, che non c’è nessun problema a rigenerare o rivitalizzare. Ad esempio, dentro Artissima c’è un progetto che si chiama DAF Struttura in cui ho utilizzato una font del 1922 di un architetto poco sconosciuto, Lauweriks, che ha disegnato quel carattere per farne un uso unico in una pubblicazione. È una font molto contemporanea, basata sulla modularità di quadrati che, quando si dispongono sulle linee diagonali, appaiono come pixel e la fanno sembrare fortemente contemporanea. Di microstorie del genere ce ne sono infinite e sono in continua evoluzione, perché è il nostro gusto in divenire che imprevedibilmente ci porta a riconoscere quelle pepite sparse. Oggi c’è la tendenza nei più giovani a credere che quello che trovano su Internet sia il totale delle esistenze. Quindi le mie lezioni vertono principalmente sugli ultimi vent’anni, quelli che mancano in genere nei libri di storia della grafica, anche se l’esame verte solo sui libri di storia prescelti, appunto. Quindi ho due strisce temporali distinte su cui cercare di accendere la miccia della curiosità. Anche perché, se si riproduce qualcosa, inconsapevolmente, di cui l’originale è recente, si risulta comunque essere degli emuli, e quindi sei obbligato come professionista a conoscere la contemporaneità; se ricicli qualcosa degli Anni Quaranta o Settanta, al limite qualcuno penserà che è una citazione. Questo approccio si rivela utile al secondo anno del Biennio per un corso più progettuale come quello che tengo di magazine design.


Questa tua consapevolezza è molto importante perché, in questo mondo dell’etere, dove possiamo essere raggiunti da tutti, non riusciamo però a comunicare con tutti. 

Sì, i sistemi di comunicazione sono molto cambiati, ora diamo molta importanza al digitale perché molti pensano che l’indice scientifico del consumo reale sia dato dai like rispetto a tutti gli altri strumenti che utilizziamo per identificare i target. Ma dobbiamo farlo con un minimo di distinguo di contesto comunicativo. Faccio un esempio: i Creative Mornings sono degli eventi mensili legati alla creatività che si svolgono in un network di circa 180 città del mondo e di cui noi, da quattro anni, seguiamo il capitolo torinese. Alle otto mezzo del mattino, un orario quasi improbabile per un talk, partecipano circa cento persone. Ma quando su Facebook posto l’evento ottengo 15 like. Questo rivela che c’è anche una divisione anagrafica nell’uso degli strumenti di comunicazione, e così come sono interessanti i Millennials e i loro consumi, c’è un’altra fetta anagrafica della popolazione “ancora in vita”, che magari ha consumi altrettanto vivi (anche perché per ragioni d’età si può permettere spese superiori a quelle di uno studente) che non possono essere solo tracciati attraverso i social media, perché quella fetta di popolazione ne fa un uso più limitato. By Lorenzo Bruni  – artribune.com


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