Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tartaglia Arte il seguente articolo:
PUBBLICHIAMO LA TRADUZIONE ITALIANA DELL’ARTICOLO APPARSO SU ARTFORUM IL 23 NOVEMBRE. A FIRMARLO È BARRY SCHWABSKY, CRITICO D’ARTE DI THE NATION E CO-EDITOR DI INTERNATIONAL REVIEWS PER ARTFORUM, CHE RICORDA E RENDE OMAGGIO AL PITTORE FRANCESCO POLENGHI, MORTO A CAUSA DEL CORONAVIRUS LA SETTIMANA SCORSA A MILANO.
Francesco Polenghi, un pittore il cui insolito percorso di vita ha fatto sì che la sua carriera pubblica iniziasse quando aveva poco meno di settant’anni, è morto a Milano all’età di 84 anni, vittima della pandemia di Covid-19. Provenendo da una famiglia che aveva trovato successo nell’industria lattiero-casearia, Polenghi ha frequentato la New York University, dove (nonostante già interessato all’arte) si è laureato in economia nel 1961. Ha continuato a vivere a New York fino al 1966, per poi tornare in Italia dove ha lavorato in campo pubblicitario, dedicandosi nel contempo alla pittura. Affascinato dalla filosofia e dalle religioni orientali, è andato in India per la prima volta nel 1977 e ha vissuto lì in un ashram dal 1981 al 1988. È stato al suo ritorno in Italia che Polenghi si è concentrato maggiormente sulla pittura. Arturo Schwarz, studioso, scrittore ed ex gallerista, conosciuto soprattutto in quanto esperto di Marcel Duchamp, ne divenne un entusiasta sostenitore, curando la prima grande mostra di Polenghi alla Fondazione Mudima a Milano nel 2003. Attraverso Schwarz, anche il curatore e critico Demetrio Paparoni ha conosciuto Polenghi, diventando un suo appassionato sostenitore. Si tratta di un artista che non ha mai raggiunto un ampio pubblico o successo di mercato ma piuttosto la fedele ammirazione di pochi appassionati. I dipinti della maturità di Polenghi erano opere astratte – per lo più su tele quadrate – composte da moltitudini di piccoli segni tubolari che andavano a formare ampie trame che coprono tutta la tela e che, muovendosi in modo irregolare, evocano una grande energia. Questa trama di segni è stata talvolta paragonata ai tardi disegni di diluvi di Leonardo.
Tuttavia nei dipinti di Polenghi questo senso di una forza naturale travolgente è accompagnato da un grande equilibrio psichico, forse dovuto al suo particolare modo di lavorare: mentre dipingeva, recitava costantemente un mantra volto ad acquietare l’attività mentale di modo da raggiungere una sorta di vuoto assoluto. In altre parole, si accostava all’atto del dipingere come a un rituale meditativo. Tuttavia non era necessario condividere a pieno le convinzioni spirituali dell’artista per essere emozionati dai loro esiti ipnotici. Il critico David Carrier descrive il modo in cui, sebbene non religioso e non particolarmente interessato alla spiritualità, durante una visita allo studio di Polenghi sul Naviglio Grande a Milano, all’improvviso si sentì, “per così dire, esaltato” come se “una strana, quasi prodigiosa calma discendesse su di me e scoprii che ero perfettamente tranquillo… Ho pensato che la spiritualità è viva e fiorente a Milano”. By Barry Schwabsky – artribune.com