Tartaglia Arte: Neuroestetica, squali e pandemia

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’articolo ricevuta da Tartaglia Arte:

Se nelle teorie scientifiche tardo ottocentesche di Ernst Wilhelm von Brücke, derivanti dalle osservazioni dell’ottica di Hermann von Helmholtz, l’arte era definita principalmente come un’espressione retinica, è grazie alle moderne tecnologie di neuroimaging che possiamo riferirci a un’espressione non più retinica ma cerebrale dell’arte. Filosofi, artisti e scienziati si interrogano, oggi come allora, sulla sua capacità di influenzare in maniera diretta i pensieri e le aspirazioni umane, attraverso un’attivazione progressiva e spontanea delle aree cerebrali fino a giungere a una comprensione globale che si fonda sulle qualità mnesiche e la cifra culturale di chi fruisce il bene artistico. Una vera e propria metamorfosi cognitiva dalla Vorstellung ovvero la semplice immagine di ciò che è, alla Einstellung, il ragionamento articolato sui possibili significati suggeriti dall’opera d’arte. Affronteremo, in questo articolo, il viaggio a ritroso nell’ontologia della genesi del pensiero umano, basandoci sulla Neuroestetica o neurobiologia dell’estetica, per dare una chiave di lettura agli attuali contesti socio-culturali, prendendo a modello le opere di una delle star dell’arte contemporanea.

Damien Hirst – The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living – 1991

LO SQUALO DI DAMIEN HIRST

Avete mai considerato l’idea di trovarvi faccia a faccia con uno squalo di “appena” sei metri? Per immergersi in questa esperienza tachicardica, non occorre nuotare affannosamente nelle gelide acque dell’oceano atlantico ma basterebbe solo ritrovarsi nella sala di un museo, al cospetto di una delle opere di Damien Hirst. Parliamo del famoso squalo da 12 milioni di dollari, una delle espressioni artistiche più controverse e costose del XXI secolo: The physical impossibility of death in the mind of someone living (L’impossibilità materiale della morte nella mente di un essere vivente). Un esercizio artistico di stile che penetra la mente dell’osservatore attraverso una pluralità di varchi dimensionali, catalizzatori situazionali di insondati domini psichici, che, in una continua metabolizzazione del punto di vista, auspicano la trascendenza dalla materia biologica, non per mezzo della sua negazione bensì attraversando consapevolmente le sabbie mobili delle emozioni legate alle paure ancestrali della morte. L’artista in questo contesto assurge al ruolo di moderno ierofante, che, attraverso i mezzi espressivi suggeriti dalle sue opere, fornisce allo spettatore i dispositivi mistagogici per affrontare le ansie e le paure della vita. Nello squalo di Hirst, il primo di questi è rappresentato dalla trasformazione alchemico-concettuale del titolo dell’opera, che, in una trasposizione semantica alla Gombrich, vuole rappresentare una sorta di “istruzione all’uso” dell’opera da parte dello spettatore. L’artista nel concepire questo lavoro, frutto dell’intersecazione tra un’operazione tassidermica, al limite del ready made, e una speculazione concettuale metalinguistica, non nega l’influsso che sulla sua psiche ha avuto il famoso film spielberghiano Jaws (tradotto in italiano con Lo squalo), una memorabile pellicola che si è indelebilmente impressa nelle menti degli spettatori in tutto il mondo. Il trovarsi faccia a faccia con un predatore preistorico come lo squalo, un animale che, dalle parole dello stesso Hirst, “sembra morto quando è vivo e vivo quando è morto”, allude alla totale impotenza dell’uomo di fronte alle forze della natura, in una evocazione diretta della paura ancestrale di soccombere a esse, con il conseguente corteo di manifestazioni neurofisiologiche a carico della cosiddetta area o memoria di lavoro cerebrale anatomicamente costituita dal giro cingolato, dai nuclei della base, dall’ipotalamo e dall’amigdala.

Aree cerebrali del giro cingolato, nuclei della base, ipotalamo e amigdala © Angela Savino & Ottavio De Clemente

LA QUESTIONE DELL’ENIGMA PERCETTIVO

Le opere d’arte che creano un cortocircuito cerebrale, tra ciò che viene visto e il significato che l’artista attribuisce a esso, danno vita a una ben precisa condizione neuroestetica definita dal famoso scienziato Vilayanur Ramachandran enigma percettivocondizione che mette a dura prova la memoria di lavoro. La conseguenza di ciò è una maggiore stimolazione dei recettori delle aree neuronali, situate nei lobi prefrontali, deputate alla gestione dei pensieri creativi e al controllo cosciente della memoria, strutturandola in immagini mentali che nel caso dello squalo di Hirst veicolano le idee di orrore e angoscia. Ma come è possibile che, dall’alto del progresso tecnologico e della complessità dell’evoluzione culturale, il nostro cervello subisca inerme lo scacco matto delle emozioni? Per cercare di dare una spiegazione occorre riferirci a un altro concetto neurocognitivo, quello di neotenia, ossia il permanere di caratteristiche giovanili in età adulta. A differenza delle altre specie, i cuccioli di uomo, infatti, imparano molto tardi a compiere delle azioni elementari come il camminare o il coordinare i movimenti degli arti e organizzare il linguaggio. Una situazione drammatica questa, se fossimo nati in una foresta o nelle profondità oceaniche, con l’alta probabilità di incontrare precocemente dei predatori. Un cervello che matura tardi dà però la possibilità di essere più lungamente plasmato dall’esperienza, accumulando una notevole mole di dati per un tempo maggiore. Sono questi dati che, ripresi in età adulta, permettono di creare mondi finzionali, idee o soluzioni innovative ai problemi della vita. Paghiamo la nostra intelligenza creativa con il prezzo di avere un cervello maggiormente sensibile e “impressionabile”, proprio come una pellicola fotografica, per alcuni decenni dopo la nascita o, come affermano alcuni autori, addirittura per tutta la vita. Dal punto di vista anatomico questa condizione si manifesta con la cosiddetta plasticità neuronale. Ciò significa che le terminazioni nervose di ogni singola cellula del nostro cervello sono in una condizione di rimaneggiamento continuo, in maniera direttamente proporzionale a quel che impariamo e agli stimoli che riceviamo dal mondo esterno attraverso le meccaniche del nostro corpo (embodiment). Ogni variazione di questi pattern neurali si ripercuote sull’intera impalcatura cerebrale come in un continuo gioco tensegritivo tra strutture rigide (memorie archetipali) ed elementi elastici (nuove informazioni).

Damien Hirst, Standing Alone on the Precipice and Overlooking the Arctic Wastelands of Pure Terror (1999 – 2000)

LA PAURA DELLA MORTE

Questa mirabile macchina di raffinata intelligenza si viene a inceppare nel momento in cui i nostri occhi, o più in generale il nostro corpo, sperimentano quella condizione di profonda angoscia e terrore atavico generata dalla paura della morte, sia al cospetto dei denti aguzzi di un grande squalo, conservato in una teca all’interno di una galleria d’arte, che nella ricostruzione mentale di una infinitamente piccola entità virale. L’algoritmo di ragionamento simbolico è il medesimo che, attraverso un processo di significazione e il conseguente atteggiamento interpretativo, può influire in maniera drammatica sui nostri pensieri e le nostre azioni. Sotto l’influsso delle sostanze neuroattive, originate dalla situazione di stress, i più alti ideali, frutto delle nostre faticose conquiste evolutive e culturali, che si materializzano, tra le altre, nella cooperazione e condivisione interpersonale e nella contemplazione kantiana del piacere estetico incondizionato, vengono a ridursi a una sottodimensione del vivere, funzionale alla mera sopravvivenza biologica del corpo. La cooperazione lascia così il posto alla competizione, la contemplazione a un riduzionismo visivo fatto di un rapido susseguirsi di immagini naïve, dai grossolani cromatismi e un cono di visuale sempre più ristretto, fosco preludio a una altrettanta limitatezza dell’elaborazione del pensiero cosciente. Un antidoto a questo scivolamento involutivo è rappresentato dall’arte che, fin dalle prime espressioni del memento mori, ha voluto ricordare all’uomo l’ineluttabile caducità della vita. Artisti contemporanei come Damien Hirst hanno saputo integrare nelle loro opere questi concetti. Oltre all’aggressività dello squalo ne è un esempio un altro lavoro di Hirst, Standing Alone on the Precipice and Overlooking the Arctic Wastelands of Pure Terror (1999-2000) dove i ripiani che ospitano pillole e compresse rivestono letteralmente tutte le pareti della sala nella quale l’opera è allestita, in una sorta di metafora visiva che, concettualizzando la dualità antitetica vita-morte, attribuisce un ruolo apotropaico al rituale dell’assunzione medicamentosa. Una dimostrazione di come nella civiltà moderna la morte non è considerata più come evento naturale della fine della vita ma incidente di percorso, una lacerazione nello stroma del continuum temporale su cui poggia il corpo biologico, per rimediare alla quale rovistiamo continuamente nella cassetta degli attrezzi della scienza medica, con l’obiettivo di trovare un qualche antidoto alla grande mietitrice. Un’azione destinata al fallimento e per questo fonte di ansia e stress. Così le nostre vite, slegate da una organicità biologica e sociale (mors tua vita mea), diventano semplici prodotti di scambio per beni e servizi e come tali con una data di scadenza.

Ideogramma cinese che rappresenta la parola ‘crisi’ © Angela Savino & Ottavio De Clemente

ARTE VS STRESS

Con le loro opere artisti come Hirst stimolano lo spettatore a superare i meri confini della corporeità edonistica, invitando a elevare la coscienza verso i grandi interrogativi dell’umanità. Durante questa partecipazione esperienziale, i sentimenti di orrore, ripugnanza e terrore svolgono un ruolo catartico, incenerendo le loro interferenze emozionali nella genesi del pensiero cosciente. Per questo gli animali senza vita, oggetto delle altre opere di Hirst, si presentano dissezionati ma, se visti da altre angolazioni, appaiono conservare artificialmente la loro vis vitalis. Nelle mani dell’artista, i corpi diventano un giocattolo smontabile che, una volta perso il tegumento esterno, rivela i contenuti meccanici alla base dello stare al mondo. Queste opere vivono una sorta di simmetrica ambiguità, una lettura doppia nella quale gli effetti nella mente di chi osserva sono simultaneamente antitetici. Abbiamo tutti noi sperimentato una parte di queste condizioni dovute alla pandemia da Covid-19 che, come uno tsunami improvviso, ha travolto inesorabilmente le nostre vite proiettando ombre inquietanti sul futuro. Una crisi inattesa che ha influenzato anche il mondo dell’arte e le capacità creative ed espressive degli artisti. È degno di nota però come la parola crisi contenga in nuce l’idea di rinnovamento. Per esempio l’ideogramma cinese weiji, che rappresenta la parola crisi, è costituito da due simboli, uno che significa “pericolo” e l’altro “occasione/opportunità”. Se è evidente che la crisi diviene un sinonimo di rigenerazione, passaggio obbligato per mettere in dubbio le certezze, è anche vero che essa dà la possibilità di scoprire nuovi processi e inaspettate risorse. Uno sguardo sulla contemporaneità dell’arte attraverso le lenti focali della neuroestetica ci permette quindi, anche in tempi infausti, di comprendere le meccaniche neuronali alla base dello stress, condizione che può contribuire a restituire all’arte e alla creatività il loro ruolo elettivo, nel promuovere la genesi di una visione alta del senso della vita piuttosto che vederla diluirsi in una improduttiva

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