Nel 1978, l’anno di Animal House, John Belushi e Dan Aykroyd creano per la popolarissima trasmissione tv Saturday Night Live i personaggi di Jake “Joliet” ed Elwood Blues, ribattezzati dal compositore Howard Shore “The Blues Brothers”: due fratelli cresciuti in un orfanotrofio dell’Illinois e iniziati al blues nelle sue molteplici declinazioni grazie a un inserviente dell’istituto, caratterizzati dai loro abiti neri e dagli onnipresenti occhiali da sole Ray-Ban Wayfarer, anch’essi con montatura nera.
Col primo in vetta anche alle classifiche degli incassi cinematografici, i due finiscono primi nella classifica di Billboard grazie all’abum di cover Briefcase Full of Blues; e subito iniziano a mettere sul piatto l’idea che i loro personaggi possano diventare protagonisti di un film.
Dopo una lotta acerrima di Paramount e Universal per aggiudicarsene produzione e distribuzione, a prevalere è quest’ultima, che ingaggia John Landis alla regia e lo incarica anche di trasformare in qualcosa di realmente filmabile il copione di 400 pagine che lo sceneggiatore esordiente Aykroyd aveva scritto di getto sull’onda dell’entusiasmo.
Due anni dopo, il 20 giugno 1980, per la modica cifra di quasi trenta milioni di dollari di budget contro i dodici preventivati, il film debutta nelle sale americane senza clamori e sbeffeggiato da gran parte della critica finendo a un onorevole ma deludente decimo posto negli incassi complessivi della stagione Usa.
ARETHA FRANKLIN THE BLUES BROTHERS
La storia
A Chicago, a bordo della sua nuova “Bluesmobile”, Elwood Blues preleva il fratello Jake dalla prigione in cui ha trascorso tre anni per rapina e insieme a lui fa visita all’orfanotrofio cattolico dove hanno trascorso la loro infanzia solo per scoprire che l’istituto necessita di cinquemila dollari per pagare tasse arretrate che potrebbero portarlo alla chiusura.
RAY CHARLES E I BLUES BROTHERS
I due si offrono di procacciare la somma in tempi brevi, ma vengono avvertiti che dovranno guadagnare quei soldi onestamente. Dopo aver assisitito alla travolgente esibizione del reverendo Cleophus James nella chiesa battista di Triple Rock, Jake viene folgorato da una rivelazione: l’unico modo per far fronte all’impegno preso con l’orfanotrofio è entrare “in missione per conto di Dio” e rimettere insieme la vecchia Blues Brothers Band.
Dapprima rintracciando e riunendo i vecchi compagni del gruppo e poi organizzando concerti i cui incassi vengano devoluti alla bisogna.
L’impresa non si rivelerà semplice: non tanto per la relativa difficoltà della reunion, quanto perché i due si cacceranno in una serie di catastrofici impicci a catena: tallonati da una donna misteriosa e vendicativa che li vuole morti (che si scoprirà essere la ex di Jake abbandonata sull’altare), dai membri di una band alla quale si sono sostituiti ingannando il proprietario di un club, dai “nazisti dell’Illinois” con cui hanno avuto uno spiacevole incontro e dalle forze dell’ordine congiunte dell’intero stato, riusciranno nel loro intento dopo una memorabile esibizione dal vivo ma anche dopo una fuga disperata e una lotta contro il tempo per raggiungere pagare il debito all’ufficio delle tasse di Chicago prima di finire definitivamente in prigione.
Un film «politico»
Al suo quarto lungometraggio dopo Slok, Ridere per ridere e Animal House, Landis si mette al servizio del “progetto Blues Brothers” senza dimenticare la sua verve caustica e la sua capacità di restituire una lettura “politica” della società americana pur nascondendo il suo estremismo tra le pieghe di un cinema apparentemente innocuo e “demenziale”.
Da un regista che forse senza volerlo davvero ha impresso un cambiamento radicale non solo alla commedia ma anche al cinema di genere, ma anche un attacco frontale e preveggente a un’America già sull’orlo del baratro della follia reazionaria degli anni Ottanta a venire: la descrizione sulfurea delle istituzioni tutte fa il paio con quella di una società civile rappresentata ignorante, razzista e alimentata dal pregiudizio.
JOHN BELUSHI BLUES BROTHERS SCUSE
USHI THE BLUES BROTHERS
Abbiamo sin qui accuratamente evitato di utilizzare il termine “cult”: ma ora non se ne può più fare a meno.
Non solo un’infinità di sequenze “narrative” del film ricadono infatti sotto la categoria (proviamo a elencarne quattro a caso: la riconsegna degli effetti personali di Jake da parte della guardia carceraria, la sequenza al ristorante, il monologo-confessione nel tunnel, l’arrivo della SWAT nel finale; se non sapete a cosa ci stiamo riferendo proviamo per i vostri occhi vergini un profondo sentimento di invidia), ma che dire della parte strettamente musicale e delle sue guest star?
In un film che brilla comunque per le sue scelte di casting “puro” (oltre a Belushi e Aykroyd fanno parte del gioco anche Carrie Fisher, nel ruolo della ex fidanzata -senza nome- di Jake; il veterano Charles Napier in quello dell’improbabile leader della band country Good Ole Boys; John Candy, Kathleen Freeman e tanti cameo tra i quali Frank Oz, Steven Spielberg, Paul Reubens aka Pee-Wee Herman e la modella Twiggy), il parco di glorie della musica, blues/soul/jazz/funk/r’n’b in campo fa tremare i polsi.
G
Le sequenze monstre non si contano: dal gospel scatenato di James Brown (con Chaka Khan mescolata tra le coriste) di The Old Landmark, che risveglia la necessità di ricreare “la banda”, alla scatenata Think con cui Aretha cerca (invano) di convincere il marito a non tornare coi vecchi compari; dalla Shake a Tail Feather nel negozio di strumenti di Ray Charles al rovinoso tema di Rawhide intonato nel localaccio fino all’apoteosi di Minnie the Moocher di Cab Calloway durante lo show finale.
Non a caso, in un poll indetto nel 2004 dalla BBC per decretare la miglior colonna sonora di sempre, quella di The Blues Brothers stracciò la concorrenza con un plebiscito.
La velocissima dinamica con cui The Blues Brothers passò da opera sottostimata a capolavoro di culto indusse la produzione a considerare l’idea di un sequel: poi successe quel che successe e che tutti sappiamo e fu solo nel 1998 che vide la luce lo struggente e incompreso Blues Brothers – Il mito continua, sempre diretto da Landis (in cui Aykroyd riprendeva il suo ruolo) e realizzato con l’intenzione nascosta proprio di riflettere sull’impossibilità di dare un seguito a qualcosa di così irripetibile.
MATT MURPHY ARETHA FRANKLIN BLUES BROTHERS
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