Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, scrive una lettera indirizzata al suo avvocato Stefano Savi, dove c’è tutta l’amarezza, la consapevolezza critica e la disillusione che agitano lo stato d’animo dell’uomo e del rappresentante istituzionale, alle prese con un caso che ha ormai da tempo soverchiato ragioni giuridiche e motivazioni personali.
«È chiaro che oggi per me la poltrona di presidente è maggiormente un peso che un onore. Forse sarebbe stato più facile, fin da subito, sbattere la porta, con indignazione, al solo sospetto mosso sul mio operato. Nella mia vita ho cambiato tante volte, non mi spaventa personalmente rinunciare ad un ruolo a cui pure sono legato, per i risultati che rivendico e a cui ho dedicato ogni singolo minuto degli ultimi nove anni, sacrificando affetti e amici. Il conto umano è in pareggio. La gratificazione per quello che gli elettori liguri mi hanno consentito di fare, dal Ponte San Giorgio in poi, è enorme» aggiunge lo scrivente, ricordando che la presidenza di una Regione «non è un bene personale. È un patrimonio collettivo. Di chi l’ha votata; di chi l’ha sostenuta; di coloro che si sono spesi per un’avventura politica. Ho sperato, e spero ancora, che giustizia e politica possano rispettare i propri ruoli e le proprie prerogative».
«Nei prossimi giorni, con il permesso dei magistrati, tornerò ad incontrarmi con gli amici del mio movimento politico. Gli alleati. E tutti coloro che potrò vedere per parlare di futuro. E le scelte che faremo saranno prima di tutto per il bene della Liguria, a cui oggi tutta l’Italia dovrebbe guardare con grande attenzione. Per ora resto qui, nella casa di Ameglia. Orgoglioso della consapevolezza di essere meno ricco di quando ho cominciato a fare politica, meno libero, ma di aver contribuito a costruire una Liguria più ricca e più libera. Che gli elettori, al momento opportuno, sapranno conservare».
Toti nella lettera ripercorre i passi che hanno guidato il suo impegno al vertice nella guida della regione e il controllo meticoloso, ossessivamente puntiglioso che ne è scaturito. «La legislatura cominciata con le elezioni del 2020, vinte, con ampio consenso, per la seconda volta, dalla mia proposta politica, è stata di fatto un reality show, all’insaputa dei partecipanti. Intercettazioni telefoniche, intercettazioni ambientali, telecamere negli uffici, pedinamenti. Nessuno è stato escluso. Quattro anni delle nostre vite documentate, dal tavolo del ristorante al colore della giacca. Da tutta questa enciclopedica opera di controllo emerge una ipotesi di reato che ancora mi stupisce».
Non mancando di ribadire che i finanziamenti ai suoi comitati sono «soldi tracciati. Regolari. Iscritti dove la legge prevede, in entrata e in uscita». E su cui, aggiunge, «mi sono interessato ad alcune pratiche che ritenevo importanti. Là dove era legittimo, si è fatto. Dove non lo era, non si è fatto», puntualizza il governatore che resta ai domiciliari ad Ameglia.
Un punto su cui, Toti osserva e precisa: «Dalla mole di materiale raccolto in quattro anni non sarebbe stato difficile, spero si possa fare in giudizio, quando ci sarà, verificare che la stessa attenzione riservata alle pratiche oggetto dell’inchiesta l’abbiamo riservata a tutti coloro che facevano impresa in Liguria. Non scrive la verità chi sostiene una nostra attenzione particolare per Aldo Spinelli e le sue imprese. Gli stessi pranzi. Le stesse telefonate. Gli stessi viaggi per incontrarli, gli stessi interessamenti, sono stati riservati a tutti coloro che lavoravano ed investivano nel nostro territorio».
«Sfido a trovare un imprenditore che lamenti la nostra mancata attenzione o sollecitudine per un suo problema», dato che «ritengono io non abbia capito il reato commesso e dunque lo possa reiterare, vorrei essere chiaro: ho capito benissimo cosa mi viene addebitato».
«Per i magistrati sarebbe reato essermi interessato ad un pratica, pure se regolare, perché interessava ad un soggetto che ha versato soldi al nostro movimento politico, pure se regolarmente. Che, per paradosso, vuol dire che se mi fossi interessato alla stessa pratica di un imprenditore che non ci ha mai sostenuto, non sarei stato corrotto. E se l’imprenditore avesse finanziato un movimento politico di cui così poco stimava la politica e i leader, tanto da non parlargli neppure dei suoi progetti, non sarebbe stato un corruttore. Mi si perdoni, ma pur capendo, non sono d’accordo. Ma eviterei di farmi accusare nuovamente della stessa cosa. Se lo facessi, caro avvocato, offrirei alla tua difesa un opportunità in più: quella di chiedere la non punibilità per infermità di mente».
«Sarebbe un’azione autolesionistica contro la logica. Impossibile perché, con la notorietà e il clamore dell’inchiesta, qualsiasi imprenditore si guarderebbe bene dal fare una richiesta, pur legittima. Impossibile, anche astrattamente, perché ogni reiterazione sarebbe immediatamente scoperta. Eppure è per questo che sono ai domiciliari», scrive Toti all’avvocato Savi all’indomani della decisione del Riesame di rigettare l’istanza di revoca della misura cautelare: «Perché, pure confinato nel paesino di Ameglia, sospeso dalla carica, per il solo fatto di poterla ancora un giorno ricoprire, ormai per poco tempo per la verità, potrei nuovamente interessarmi ad altre pratiche e un imprenditore potrebbe donarci dei soldi» scrive ancora Toti nella missiva.
«Sarà giustizia, caro avvocato, ma non la percepisco come tale. Perché ricordiamoci sempre, nessuno è stato ancora condannato, nessuno sta scontando una pena. Parliamo di limitazioni alla libertà precedenti ad ogni giudizio» conclude il governatore ligure. Con una conclusione che apre a un’infinità di riflessioni e commenti.