Tra politica e solidarietà

I centri di identificazione ed espulsione (CEI), sono strutture previste dalla legge italiana ed istituite per trattenere gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera” nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile e sono stati istituiti in ottemperanza a quanto disposto all’articolo 12 della legge Turco-Napolitano. Poiché essi hanno la funzione di consentire accertamenti sull’identità di persone trattenute in vista di una possibile espulsione,  ovvero di trattenere persone in attesa di un’espulsione certa, il loro senso politico si traccia in relazione all’apparato legislativo sull’immigrazione nella sua interezza.  A tutt’oggi i soggetti prigionieri nei CIE non sono considerati detenuti, e di norma vengono definiti ospiti della struttura. La maggior parte dei centri sono gestiti dalla Croce Rossa Italiana. Il resto viene gestito dalla Confraternita delle Misericordie d’Italia. Questi  Centri di identificazione ed espulsione servono esclusivamente, a parere della Caritas-Migrantes,  a calmare le ansie di chi percepisce lo straniero come una minaccia e vengono da loro  definiti: “i lager d’Italia”. È per loro  evidente che il trattenimento, attraverso la detenzione amministrativa, nei Cie non soddisfi se non in misura minima la regolazione dei flussi migratori ed hanno il solo di assolvere a un’altra funzione: quella di sedativo delle ansie di chi percepisce la presenza dello straniero irregolarmente soggiornante, o dello straniero in quanto tale, come un pericolo per la sicurezza. A loro parere le strutture non sono legittime in quanto non rispettano le garanzie dei diritti costituzionali e non superano i test di ragionevolezza.  Le ingenti risorse destinate al sistema dei Cie potrebbero essere impiegate, affermano i due organismi pastorali della Cei, per il rafforzamento delle politiche di integrazione degli stranieri e per la valorizzazione del rimpatrio assistito. In pratica gli organismi pastorali si esprimono in una logica elusivamente politica. Con il loro  Rapporto viene segnalato che  “lo Stato per la gestione destina non meno di 55 milioni di euro l’anno mentre per la gestione di tutto l’apparato relativo al trattenimento e all’allontanamento dei cittadini stranieri irregolari ha speso, tra il 2005 e il 2012, oltre un miliardo di euro”. E tutto questo appare doppiamente inefficace: oltre a non consentire all’Italia di applicare i principi della solidarietà e tutela dei diritti umani cui è impegnata con l’adesione ai trattati internazionali oltre che con la Costituzione, in effetti i Cie nemmeno raggiungono il loro scopo: su 169.126 persone internate nei centri tra il 1998 e il 2012, sono state soltanto 78.081, il 46,2 per cento del totale,  quelle effettivamente rimpatriate. Secondo Caritas e Migrantes, “la vera riforma del sistema dei rimpatri sarebbe, pertanto, la chiusura dei Centri, fermo restando che l’identificazione e l’acquisizione dei titoli di viaggio degli stranieri pregiudicati potrebbe aver luogo durante la detenzione in carcere”. Ma “una simile scelta politica sarebbe possibile solo con una contestuale rivisitazione delle norme sull’allontanamento, che incentivi la partenza volontaria, consenta la regolarizzazione di chi è parte di un rapporto di lavoro subordinato e dei soggetti più deboli, valorizzi le misure alternative al trattenimento, come ad esempio l’obbligo di dimora, la consegna dei documenti, la presentazione periodica alle autorità che attualmente sono sostanzialmente non applicate”.

Rosaria Palladino

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