Oggi pomeriggio la Corte di Assise di Palermo ha pronunciato la sentenza riguardo al processo, iniziato 5 anni fa, sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
Il boss mafioso Leoluca Bagarella è stato condannato a 28 anni di reclusione. Il boss mafioso Antonino Cinà è stato condannato a 12 anni. Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia, Antonio Subranni e Mario Mori, ex vertici del Ros, condannati a 12 anni. L’ex colonnello Giuseppe De Donno per Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, condannato a 8 anni. Tutti gli imputati sono stati condannati al pagamento delle spese processuali e interdetti in perpetuo dai pubblici uffici. Gli imputati sono stati condannati anche al pagamento dei danni alle parti civili, per una somma complessiva di 10 milioni. È stato invece assolto l’ex ministro Nicola Mancino. È scattata invece la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca.
I giudici sono entrati in camera di consiglio il 16 aprile e hanno emesso il verdetto nell’aula bunker del carcere Pagliarelli. Il procedimento è sorto per fare luce sul presunto patto che, nel 1992, alcune parti dello Stato avrebbero stretto con Cosa Nostra per fermare le stragi mafiose che colpivano l’Italia in quel periodo.
In questi 5 anni dall’inizio del processo, sono state oltre 200 le udienze e i testimoni sentiti dai giudici di Palermo. La fase processuale era cominciata nel 2013. Il processo si era aperto su una presunta negoziazione tra importanti funzionari dello Stato italiano e rappresentanti di Cosa nostra finalizzata a fare cessare gli attentati e le stragi del 1992-93.
L’obiettivo della “trattativa” era spingere lo Stato a piegarsi alle richieste di Cosa nostra, che in cambio della fine della “stagione stragista” voleva un’attenuazione delle misure previste dall’articolo 41 bis, il cosiddetto carcere duro.
Gli imputati in questo processo, che ha avuto inizio nel 2013, sono Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ex vertici del Ros, i boss mafiosi Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e il pentito Giovanni Brusca, tutti accusati di minaccia ad un Corpo politico dello Stato.
Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, risponde invece di concorso in associazione mafiosa e calunnia, mentre l’ex ministro Nicola Mancino è accusato di falsa testimonianza.
Dopo una lunga requisitoria, durata una decina di udienze, il 26 gennaio 2018 i pubblici ministeri Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e i sostituti della Procura nazionale antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene avevano chiesto le seguenti condanne: 16 anni per il boss Bagarella, 15 anni di reclusione per il generale Mori, 12 anni per il generale Subranni, per il colonnello De Donno, per Dell’Utri e per il boss Cinà, 6 anni per Mancino, 5 anni per Ciancimino, Non doversi procedere per Giovanni Brusca.
Così è iniziata, il 14 dicembre 2017, la requisitoria dei pubblici ministeri: “Questo processo ha avuto peculiarità rilevanti che lo hanno segnato fin dall’inizio. La storia ha riguardato i rapporti indebiti che ci sono stati tra alcuni esponenti di vertice di Cosa Nostra e alcuni esponenti istituzionali dello Stato italiano”.
Secondo i magistrati, alcuni esponenti delle istituzioni “hanno ceduto, per paura o incompetenza, illudendosi che la concessione di una attenuazione del regime carcerario del 41 bis potesse far cessare le bombe e il piano criminale di devastazione di vite e obiettivi. Cosa che non avvenne”.
“Una parte importante e trasversale delle istituzioni, spinta da ambizione di potere contrabbandata da ragion di stato”, hanno continuato i pm, “ha cercato e ottenuto il dialogo e poi il parziale compromesso con l’organizzazione mafiosa”.
“La trattativa era attesa, voluta e desiderata da Cosa Nostra. E in quel periodo c’era un comprimario occulto, una intelligenza esterna che premeva per la linea della distensione”.
Tutto questo “mentre Cosa Nostra continuava a cercare il dialogo a suon di bombe, con i morti per terra a Milano e Firenze, e sfregiando monumenti”.
I magistrati hanno sostenuto che ci furono molti segnali volti a favorire la trattativa. Tra questi, “la revoca e gli annullamenti del 41 bis”, o “la mancata perquisizione del covo di Riina”. “Cedendo al ricatto, lo Stato si è messo nelle mani della mafia”, hanno concluso i pubblici ministeri.
La sentenza è stata commentata dai politici italiani e soprattutto da Luigi Di Maio, leader del Movimento 5 stelle.
“La trattativa Stato-mafia c’è stata. Con le condanne di oggi muore definitivamente la seconda Repubblica. Grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità”.
Questo il commento di Di Maio su Twitter, a cui ha fatto seguito il post pubblicato su Facebook da Alessandro Di Battista.
“Con la storica sentenza sulla trattativa Stato-Mafia si dimostra, una volta per tutte, che pezzi delle Istituzioni sono scesi a patti con Cosa Nostra. Tra i soggetti contraenti del patto c’è Marcello Dell’Utri (e qualcuno ne chiedeva la scarcerazione) fondatore di Forza Italia e braccio destro di Berlusconi. Ora il Caimano sarà ancora più nervoso. Il suo sistema di potere gli sta franando sotto i piedi. Oggi, finalmente e definitivamente, finisce la Seconda Repubblica. I mie personali complimenti e tutta la mia gratitudine alla procura di Palermo”.