E’ già un bestseller Tre ciotole, il nuovo romanzo di Michela Murgia, un libro nel quale, a detta della stessa autrice, “tutto è autobiografico e niente è autobiografico”. Racconti brevi, che spiazzano. In cui si scorge a fatica il labile confine tra realtà e immaginazione.
Sin dalla diagnosi della «nuova formazione di cellule sul rene», vale a dire – tradotto nel gergo lapidario dei medici – «Carcinoma renale al quarto stadio.» Il dialogo con l’oncologo, riportato nel libro, è davvero disarmante:
«Mi ha detto che scrive romanzi, un bellissimo lavoro, ma è molto complicato. Nessuna specie in natura lo sa fare, solo gli esseri umani. Conosce altre lingue oltre l’italiano?»
«L’inglese, il francese, più o meno lo spagnolo… Sto studiando il coreano.»
«Preferirebbe non saper fare nessuna di queste cose a patto di non ammalarsi mai? Gli organismi unicellulari non sviluppano neoplasie, ma non imparano lingue. Le amebe non scrivono romanzi.»
E così, lentamente, prendono forma tutti i fantasmi di quello che chiamiamo «Brutto male. Male incurabile. Il maledetto. Il bastardo. Quella cosa.» Michela no, si affida al coreano per nominare ciò che in quella lingua si dice “am”. La nausea, continuativa, che la porta a perdere sedici chili. La perdita dei capelli. La sparizione del ciclo mentre diventa «sempre più difficile nascondere col trucco il colorito da piastrella che vedevo allo specchio», che si accompagnano al vivido racconto del trauma causato dalla fine di un amore.
La malattia rimette tutto in discussione e rievoca antiche insofferenze, come quella per i piatti: «Fondi, piani, da frutta, da dolce, da formaggio, mi erano tutti insopportabili. I miei genitori si erano distrutti addosso interi servizi, con una frequenza tale che quando raccoglievamo i cocci dell’ultima lite trovavamo ancora sotto al divano le schegge di quelle precedenti.» E così, «la sera in cui ci siamo lasciati avevo rotto i piatti uno per uno, frantumandoli con l’unico martello che avevo in casa. […] Il giorno dopo andai nel negozio di casalinghi vicino a casa e comprai tre ciotole di ceramica bianca e blu».
Le tre ciotole rappresentano il nuovo rapporto col cibo, ora vincolato agli improvvisi conati di vomito. Contengono piccole porzioni ciascuna, di riso, di carne e di verdure. Possono essere consumate in un colpo solo o a tappe, all’ora preferita.
O la confessione lucida e sconvolgente, nel generale clima familista e la «retorica sui pargoli angioletti», dell’odio per i bambini. «Non esistono bambini buoni o cattivi, sono categorie sciocche: è proprio il fatto che sono bambini a renderli odiosi. Nelle discussioni, per amore di pace, annuisco senza ribattere se qualcuno cerca di spostare la questione sui genitori che li educano male. Secondo questa teoria, se il bambino è beneducato è delizioso o quantomeno non troppo problematico. Il suo essere molesto sarebbe dunque colpa dell’adulto che lo ha cresciuto male. È una menzogna. Nessuna educazione impedisce che il bambino agisca la cosa più odiosa di cui è capace: sé stesso. Tutti i bambini, anche quelli inibiti con la minaccia, presto o tardi piangeranno, cercheranno di attirare l’attenzione interrompendoti, faranno cadere le cose, alzeranno la voce, vorranno correre dove non si può e mangiare quello che non c’è, chiederanno di andare in bagno nel momento meno opportuno o pretenderanno altre cose che non puoi o non vuoi dargli. I bambini sono fasci di bisogni infiniti che non sanno fingere e non saper fingere è un difetto sociale, puerile per definizione. Crescere è anche imparare a nascondere gli istinti che ci porterebbero all’abbrutimento. La buona educazione è addestramento alla finzione, a dire che stai bene anche se non è vero, perché in realtà nessuno vuol davvero sapere che quel giorno hai la diarrea o il reflusso. Educazione è affermare che sei lieta di fare una cosa che non vorresti fare per niente. È sorridere a qualcuno a cui vorresti spaccare la faccia, altrimenti andremmo tutti in giro con i connotati scomposti dalle botte. Il senso di responsabilità nasce dal fatto che ogni ipocrisia mancata genera conseguenze, ma il bambino il problema delle conseguenze non ce l’ha.»
Una scrittura-verità, un libro che segna e non lascia indifferenti, come tutti quelli di Michela Murgia.