“Nessuno nega – dice Torelli – che la Tunisia sia uno di quelli usciti meglio dall’esperienza delle primavere arabe. Ma gli analisti da anni parlano di un crescente allarme terrorismo. Già nel 2012, un report del ministero dell’Interno tunisino parlava di circa 800 moschee in mano a Imam radicali (circa il 10% del totale), nel 2013 si registravano attacchi suicidi, nel 2014 sono iniziati gli scontri a Tunisi, i primi gruppi hanno iniziato a giurare fedeltà allo Stato Islamico e oltre 3mila foreign fighter sono partiti per unirsi agli uomini del califfato. Sono anni che gli analisti sollevano il problema, ma non sono stati ascoltati”. Segnali di un processo di radicalizzazione in costante crescita all’interno del Paese che, però, la Farnesina non ha mai ritenuto necessario comunicare sul proprio sito viaggiaresicuri.it.
Negli ultimi mesi, però, centinaia di jihadisti tunisini, partiti per unirsi al califfato in Siria e Iraq, sono tornati nel proprio Paese con l’intento di attraversare il confine con la Libia e dare appoggio ai miliziani dello Stato Islamico a Derna e Sirte. “Non rappresentano una minaccia per il Paese”, aveva assicurato il ministro dell’Interno, Mohamed Najem Gharsalli, e lo Stato aveva disposto controlli più rigidi al confine con la Libia proprio per evitare il passaggio di soggetti radicalizzati che volevano unirsi agli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi a Derna e Sirte. Una decisione che, però, ha fatto aumentare il numero di jihadisti presenti nel Paese: “Questa – continua Torelli – può essere una concausa di ciò che è successo a Tunisi, ma, ripeto, si tratta di un processo iniziato ormai da anni e che poteva essere gestito diversamente. Se le ultime notizie dovessero essere confermate, si dice che gli attentatori indossassero uniformi dell’esercito. Negli ultimi mesi, ci sono stati scontri tra fondamentalisti e militari che hanno visto la morte di alcuni soldati a cui sono state rubate le uniformi. Quindi è possibile che si tratti di gruppi attivi già da tempo. Le parole del governo tunisino erano un modo per minimizzare il problema e non attirare su di sè l’attenzione della comunità internazionale”.
Che la Tunisia fosse un obiettivo degli uomini del califfato lo si sapeva anche grazie ai video di propaganda diffusi dai miliziani in nero che avevano lanciato numerosi appelli ai loro sostenitori nel Paese. “Non esiste in Tunisia – spiega Torelli – il rischio di una conquista territoriale da parte dello Stato Islamico, come avvenuto in Siria e Iraq. Questo perché, comunque, c’è alle spale un governo forte che ha cercato di portare avanti una lotta decisa al terrorismo”. Il problema, spiega l’analista, è che questa si basa ancora su una legge del 2003 che considera estremiste anche molte fazioni islamiste che, però, non avevano niente a che fare con i gruppi terroristici: “Gli arresti immotivati, le torture e iprocessi sommari contro rappresentanti di gruppi islamisti non radicali hanno sortito l’effetto contrario, esponendo il Paese al rischio di un nuovo Sinai, dove anche i movimenti non radicali trovano appoggio e sostegno tra i terroristi”.
La Tunisia è solo l’ultimo Stato dell’area in cui si registra un aumento del pericolo terrorismo e altri Paesi insospettabili non devono commettere l’errore di sottovalutare il fenomeno: “Oltre alla Tunisia – conclude l’esperto dell’Ispi – anche l’Algeria, l’Egitto e la Libia devono combattere il terrorismo interno. Anche il Marocco, l’unico Stato non ancora contaminato, non deve sottovalutare il problema. Il Paese, nonostante un governo forte come quello di Tunisi, è il secondo, proprio dopo la Tunisia, per numero di foreign fighter partiti per il califfato. Se un giorno dovesse crearsi una situazione simile a quella tunisina, potrebbero correre anche loro dei rischi”.