Umberto Eco e la politica culturale della Sinistra, Claudio Crapis, Giandomenico Crapis. Come si sa Eco era si formazione cattolica e nella prima giovinezza militò da dirigente nell’Azione cattolica, associazione che abbandonò presto per poi maturare un atteggiamento di distacco verso la religione. Egli non fu mai un intellettuale, come si diceva allora, ‘organico’ né della sinistra né tantomeno del Pci, ma verso questo partito guardava con curiosità ed interesse frammisti ad una netta critica verso la sua cultura ufficiale «ancora guttusiana, pratoliniana diffidente verso tante nuove tendenze emergenti, quasi sempre bollate come trucchi insidiosi del neocapitalismo.» Egli stesso poi raccontava che nei sessanta c’era «un clima molto difficile per chi volesse essere di sinistra, senza stare con il Pci» e che all’epoca l’unica alternativa possibile era con il giro di Lelio Basso e con ‘il manifesto’». In ogni caso nel corso degli anni Sessanta e Settanta egli si avvicinerà più che al Pci al campo della ‘nuova sinistra’, prima il Psiup e appunto il gruppo del ‘Manifesto’ (al cui giornale iniziò a collaborare sotto lo pseudonimo di ‘Dedalus’), forze che giudicava ispirate da un pensiero meno dogmatico. C’è da aggiungere che il nostro non era marxista, ma al marxismo guardò sempre con vivo interesse cercando un rapporto fecondo con esso nel tentativo, grazie alle nuove scienze, di aggiornarlo, di renderlo più utile ad una lettura della società moderna, di potenziarne le capacità di analisi. Tutto guidato da un impegno sincero per il cambiamento della realtà, per una modificazione delle cose, un termine quest’ultimo che ritorna spesso nei suoi scritti di allora (primi anni sessanta).
Quali riflessioni sviluppò Eco nell’articolo apparso in due puntate il 5 e il 12 ottobre 1963 sul settimanale del Partito comunista, Rinascita e quali reazioni suscitò il suo intervento?
Come abbiamo scritto nel libro nell’intervento su Rinascita egli sottolineava due cose: in primo luogo come il cambiamento tecnologico mutasse la ‘filosofia’ con cui interpretare la realtà (facendo emergere la contraddizione di un uso spesso inadeguato della dicotomia marxiana struttura/sovrastruttura); in secondo luogo come la dialettica delle forme potesse svilupparsi separatamente dalla struttura economico-sociale ed interagire con essa influenzandola. L’intervento in realtà si apriva con un accenno alla cosiddetta ‘polemica sulle avanguardie’, che da qualche tempo animava il dibattito culturale anche a sinistra, polemica dietro la quale per Eco stavano questioni di natura più generale, visto che essa si era estesa in altre sedi oltre la stessa «Rinascita»: egli dice che «altrimenti non si spiegherebbe lo spiegamento di forze messo in atto da coloro che ritengono le neoavanguardie un infantile rimasticamento di antiche novità». Le questioni di fondo erano legate allo sviluppo del neocapitalismo e dell’industria culturale di massa, alle sue relazioni sempre più dense con la società e gli individui: tutte cose che mettevano in discussione «la nozione di uomo, di razionalità, di comunicazione, di rapporto tra cultura e società in un momento in cui la cultura assume forme inedite e apparentemente aberranti». Per Eco l’inadeguatezza di analisi da parte della cultura della sinistra, della quale egli si dichiarava partecipe, era evidente, puntualizzando che le sue note volevano «esprimere, dall’interno, una insoddisfazione circa il modo in cui» i problemi venivano affrontati. Insomma se «Marx – scriveva – ha elaborato la propria interpretazione della storia solo perché erano avvenuti alcuni fatti nuovi: ad esempio l’invenzione del telaio meccanico e della macchina a vapore», questa volta «l’avvento di fatti nuovi nel campo della tecnica, tali da mutare l’assetto della società e la posizione dell’uomo nel mondo, implica una rivoluzione filosofica, un’altra visione dell’uomo e dei valori». Perché in fondo se c’era una lezione del marxismo, era proprio questa. Secondo il nostro autore, poi, l’immagine dell’uomo fornitaci dall’umanesimo rinascimentale era «un’immagine che implica un concetto di cultura come privilegio di classe»: una «cultura meditativa», magari «basata sul consumo di emozioni raffinate» e «messa immediatamente in crisi non appena i suoi valori tipici diventino consumabili dalle masse». Non si spiegavano diversamente dunque sia le accuse di Adorno contro la musica riprodotta, sia le varie polemiche sui mezzi di massa. Il fatto nuovo rispetto al passato costituito dal motivo di musica classica fischiettato in bagno o un «Beethoven non più fruito da una élite ristretta in momenti privilegiati, ma da masse molto più grandi», comportava certamente un deterioramento dei valori di una cultura per privilegiati; la quale una volta a disposizione di una più larga platea poneva invece «il problema di nuovi valori fruitivi e delle loro modalità».