Uscire dalla crisi: frammenti di un nuovo modello di sviluppo

La nostra economia sta attraversando una transizione epocale, originata da un cambiamento strutturale dei rapporti finanziari est-ovest che per almeno trent’anni hanno visto Cina e Giappone sottoscrivere obbligazioni Euro-Americane alimentando il ciclo debito-consumi-investimenti sul quale l’Occidente ha basato il proprio modello di sviluppo economico per gran parte del dopoguerra. Dalla metà degli anni duemila questi flussi hanno rallentato e perfino invertito la direzione, andando a cercare le più attrattive opportunità di crescita del blocco economico del sud-est asiatico e sud americano. Questa è una delle cause principali che ha innescato il credit-crunch del 2007-2008 ed avviato un profondo trend recessivo di natura strutturale che impone una revisione del nostro modello di sviluppo. Senza di ciò, qualsiasi iniziativa correttiva di breve è inefficace come dimostrano sette mesi di politica del rigore applicata in assenza di un quadro strategico di riferimento.

La mancanza di un nuovo modello di sviluppo condiviso aumenta inoltre il rischio di comportamenti opportunistici da parte dei singoli Paesi e accorcia l’orizzonte temporale di riferimento conducendo a scelte talvolta miopi ed inefficienti. Ad esempio, gli USA si trovano a gestire la bancarotta controllata di pezzi strutturali della propria economia, a partire dai colossi bancari e assicurativi di recente “nazionalizzazione”, e continuano ad immettere dollari nel sistema (almeno due massicci “quantitative ease” in meno di 18 mesi) forti del fatto che la propria valuta è ancora il riferimento per il regolamento di molte tipologie di transazioni internazionali. Ma tutto ciò non fa che rimandare il problema. L’Europa è priva di unità politica ed è prigioniera di una valuta rimasta più simile ad una unità contabile che non ad un vero e proprio collante in grado di fornire stabilità e prospettive di sviluppo al sistema. La Germania sta sfruttando il vantaggio competitivo costruito grazie ad un Euro estremamente forte che le consente di crescere a tassi del 2-3% contro un sud-Europa in stagnazione. Buona parte della restante area Euro è sotto assedio, stretta nella morsa della speculazione finanziaria da un lato e della recessione economica dall’altra e persegue in ordine sparso politiche di “rigore” basate su tagli e tasse del tutto avulse da una visione d’insieme del sistema economico. In questo quadro si assiste al riemergere di pericolose contrapposizioni economiche e sociali: investitori istituzionali contro debiti sovrani Europei, Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna contro Germania, politica del rigore contro obiettivi di crescita, lavoratori della “nuova” Europa contro lavoratori della “vecchia” Europa, autorità fiscali contro contribuenti etc.

L’Italia è la vittima eccellente di queste contrapposizioni. Alla speculazione internazionale agevolata dal ruolo delle agenzie di rating, che da Gennaio 2012 assegnano all’Italia lo stesso rating di Colombia, Kazakhstan e Perù (“BBB+”), ed inferiore a Paesi come Messico e Botswana (che hanno la “A” da Standard & Poor’s) si aggiunge infatti un’asfissia del mercato domestico, schiacciato da un Euro troppo forte e da una politica governativa adatta forse di più ad un Paese emergente in pieno boom economico che non ad un Paese post-industriale in piena recessione. Gli obiettivi “tecnici” che i vertici istituzionali del Paese (ricoperti da politici, non da accademici) hanno affidato a questo Governo sono privi di una visione d’insieme che possa vagamente assomigliare ad un modello organico di sviluppo coerente con i cambiamenti strutturali che hanno interessato l’economia negli ultimi cinque anni.

Per uscire dallo stallo ci vuole evidentemente altro che la politica del rigore basata unicamente su tagli e tasse che sta erodendo quel poco di propensione al consumo che rimane. Occorre un nuovo modello di sviluppo basato su scelte coraggiose, inedite, che prendano atto dell’assoluta unicità della crisi palesatasi nel 2007 sulle ceneri di equilibri internazionali saltati per sempre. Il modello di sviluppo economico del dopo-guerra, basato sul ciclo debiti-consumi e culminato in una globalizzazione selvaggia, ha cessato le proprie funzioni fisiologiche mostrando tutta la propria inadeguatezza a garantire una crescita stabile nel mutato scenario internazionale. Occorre quindi una nuova lettura dei flussi internazionali, nuove alleanze strategiche ed un’agenda delle priorità che coniughi interventi di breve in grado di gestire l’emergenza recessiva in corso con interventi di lungo termine che ricollochino l’Italia e i partner Europei in un quadro di crescita economica e di stabilita finanziaria.

Una delle prime questioni da affrontare è di natura monetaria e riguarda l’Euro. La portata degli eventi in atto apre all’Europa l’occasione di “sdoppiare” l’Euro dando corso ad una valuta meno forte da far circolare in quei Paesi che hanno caratteristiche strutturali diverse dal binomio franco-tedesco. Il dibattito è aperto e si pensa ad un Euro debole legato all’Euro forte da un patto di stabilità sorretto dalle banche centrali. Questo consentirebbe alla moneta debole di svalutarsi di almeno il 20% rispetto all’Euro forte e di fatto permetterebbe ai Paesi “deboli” che la adottano di rimanere in area Euro con un cambio diverso e più adatto alle proprie caratteristiche strutturali. Va notato che un Euro forte non implica necessariamente un Euro stabile; anzi, se il cambio non rispecchia i fondamentali dell’economia è fonte di instabilità per l’intero sistema economico. Lo sdoppiamento dell’Euro è quindi una decisione che non nega l’Euro, anzi ne fa un uso appropriato e lo pone come moneta pivot di un sistema a due velocità che consentirebbe a tutti i Paesi dell’area Euro di stabilizzare la propria valuta mantenendo importanti leve di flessibilità nelle manovre di bilancio e nelle politiche di sviluppo economico. Oltre a ciò, è evidente che il doppio Euro farebbe cadere la pregiudiziale tedesca relativa agli Eurobond e consentirebbe alla banca centrale di farsi garante di ultima istanza delle emissioni obbligazionarie sovrane, in linea con quanto fanno tutte le principali banche centrali del mondo.

Una seconda questione chiave riguarda le alleanze strategiche internazionali, tema centrale all’interno di un nuovo modello di sviluppo. Ci sono Paesi europei molto vicini geograficamente come la Turchia e la Polonia, tanto per fare due esempi, che nel 2011 sono cresciuti a tassi rispettivamente del 8,2% e del 4,3% e insieme fanno poco meno del PIL italiano. Si tratta di Paesi ad economia compatibile con l’Italia potendo offrire manodopera, anche qualificata, a costi più bassi, e potendo assorbire beni e servizi di elevata qualità dalle nostre aziende. Con questi Paesi occorre sviluppare un partenariato commerciale che consenta alle nostre aziende di essere presenti con contratti di lungo termine legati alle industrie e ai settori a maggiore crescita. Il Made in Italy è ancora trainante in queste aree ma non può essere lasciato all’iniziativa destrutturata di singoli operatori di mercato.

Chiarito il quadro monetario ed internazionale occorre definire a livello nazionale una politica economica di crescita, non di rigore. Occorre lavorare sulla crescita del PIL, stimolando i consumi e gli investimenti, e non sulla riduzione del debito in senso assoluto. Anzi, semmai è tempo di indebitarsi, ma in maniera intelligente, lungimirante e produttiva. L’Italia possiede importanti risorse strategiche che potrebbero essere utilizzate come collaterale per emissioni di obbligazioni garantite a basso rendimento (potenzialmente attorno al 2%-2.5%), sia da parte del Tesoro, che può ricorrere alle riserve auree ed alla proprietà delle aziende pubbliche, che dei Comuni, che ad esempio potrebbero attingere ai mercati finanziari internazionali mettendo a garanzia i flussi di cassa derivanti dalle entrate delle agenzie municipalizzate. Questo consentirebbe anche di limitare o evitare del tutto le privatizzazioni che nell’attuale congiuntura di mercato costringerebbero a svendere beni pubblici di valore strategico.

Oltre alle obbligazioni garantite ci sono almeno tre importanti fonti “esterne” sotto gli occhi di tutti dalle quali si possono recuperare risorse finanziarie: la lotta alla speculazione finanziaria, la semplificazione della burocrazia amministrativa e il recupero dell’evasione fiscale. Delle tre, la lotta alla speculazione finanziaria è la più urgente.

Tanto per fare un po’ di contabilità, nel corso dell’anno 2012 il Tesoro emetterà circa 350 miliardi di Euro per esigenze di rifinanziamento del debito pubblico, mentre i trentadue gruppi bancari italiani dovranno rinnovare obbligazioni in scadenza verso soggetti istituzionali per circa 88 miliardi di euro (importo che non include le obbligazioni collocate presso investitori al dettaglio e obbligazioni trattenute in bilancio) e dovranno raccogliere circa 65 miliardi di Euro sul mercato interbancario. In totale, stiamo parlando di circa 500 miliardi di Euro di raccolta il cui costo è gravato di una misura pari allo spread. Pertanto, possiamo stimare che durante il 2012 il costo di uno spread di 400 punti base si aggiri attorno ai 20 miliardi di Euro, cioè circa l’1,25% del PIL, che è pur sempre un’approssimazione per difetto. Infatti, considerando la raccolta delle aziende non bancarie e le esigenze di ricapitalizzazione che lo stesso spread impone a carico delle banche italiane possiamo stimare che l’aggravio di costo dato da uno spread di 400 punti sia superiore all’1,5% del PIL.

La speculazione finanziaria va fermata con urgenza, partendo dalla radici che stanno alimentandola, che con molta probabilità includono i giudizi di downgrade emessi dalle società di rating. A tale proposito vanno segnalate diverse ricerche anche da parte di Studi legali le cui evidenze empiriche confortano nel ritenere altamente probabile che nel 2011 vi sia stata attività di insider trading sui titoli legati ai BTP e che le agenzie di rating abbiano influenzato il mercato mediante l’utilizzo di dati e la diffusione di informazioni che appaiono confermare il reato di manipolazione. Peraltro va ricordato che le principali agenzie di rating sono indagate proprio per questa tipologia di reati in diversi Paesi.

La lotta alla speculazione richiede nel breve misure immediate ed in taluni casi drastiche. Anzitutto, appare imprescindibile la creazione di una agenzia di rating europea, priva di conflitti di interessi, nel cui azionariato non siano presenti operatori finanziari e che impieghi criteri oggettivi e trasparenti per l’assegnazione dei giudizi di rating. Oltre a ciò occorre intervenire sui meccanismi di negoziazione di alcuni comparti specifici. Ad esempio si potrebbe ragionare sulla tassazione dei nozionali dei titoli derivati e delle vendite allo scoperto, e all’introduzione di restrizioni all’uso degli altri strumenti finanziari che agevolano la speculazione finanziaria internazionale.

Le risorse liberate dagli sforzi congiunti contro la speculazione, la burocrazia e l’evasione fiscale vanno destinate ai settori che più di altri possano produrre effetti espansivi sul sistema. Per coordinare le politiche espansive occorrerebbe anzitutto una nuova legge di supporto ai settori industriali che identifichi, alla “francese”, i settori e le grandi aziende ad alto interesse nazionale, che tuteli la produzione italiana ed il marchio “Made in Italy” mediante misure che contrastino la delocalizzazione all’estero tramite incentivi fiscali e finanziari, ed al tempo stesso assistano le aziende italiane negli sforzi verso l’esportazione di beni e servizi. I settori da stimolare sono l’export, quelli ad alta intensità di lavoro giovanile e di elevato impatto sociale quali, ad esempio, centrali di generazione di energie alternative, impianti per lo smaltimento dei rifiuti, innovazione tecnologica, ricerca di base, trasporti pubblici urbani. In secondo luogo, occorre creare un Istituto di credito speciale di diritto pubblico, gestito con criteri meritocratici e manageriali, che implementi una simile politica economica e convogli il credito verso settori produttivi e strategici e superi l’immobilismo che caratterizza le attuali banche commerciali divenute un ostacolo nel meccanismo di trasmissione del credito alle aziende.

Recuperando risorse dalla speculazione e dalle altre sorgenti primarie ed investendoli nelle aree a forte impatto espansivo si conseguirebbero importanti ripercussioni a catena su obiettivi concreti e misurabili, quali ad esempio la diminuzione significativa di Irpef, Ires ed IVA su un orizzonte di cinque anni, il riavvio di un ciclo economico espansivo di lungo termine guidato dagli investimenti produttivi e la riduzione drastica della disoccupazione, che a loro volta produrrebbero ulteriori effetti espansivi a livello di sistema. L’uscita dalla crisi richiede quindi un nuovo modello di sviluppo basato su una visione d’insieme del quadro economico ed allo stesso tempo su scelte non-ortodosse in grado di contenere e correggere gli effetti della globalizzazione in un quadro di radicale cambiamento del ruolo dell’Europa nel mondo.

 Alberto Micalizzi, Ph.D

Docente universitario

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