Vittoria del sì al referendum

Le prime tendenze post-voto considerano certa la vittoria del Sì al referendum costituzionale. I primi dati indicano il Sì tra il 65 e il 68% e il No 32-35%

La vittoria del Sì era nelle previsioni sin dalla data di indizione del referendum. L’attesa è per valutare la dimensione effettiva della vittoria.

In Parlamento, tutti i partiti (tranne +Europa) avevano votato la riduzione del numero dei parlamentari. Nelle prime tre letture, quando era in carica il governo giallo-verde, anche il Pd aveva votato contro. Dopo la nascita del governo giallo-rosso, il Pd si è spostato sul Sì e quindi alla quarta lettura si è verificato un voto quasi unanime, considerando che sul Sì erano posizionati anche Lega, FdI e FI. Il referendum si è svolto perché un quinto dei senatori, in base all’articolo 138 della Costituzione, ne hanno fatto richiesta.

Nonostante tutti i partiti fossero ufficialmente per il Sì, il taglio è una misura considerata una bandiera del Movimento cinque stelle. Nelle ultime settimane, tra l’altro, molti esponenti di spicco del Pd (Prodi e Velltroni) e della Lega (Giorgetti) si sono espressi per il No. Sempre degli ultimi giorni è uno spostamento verso il No anche di Berlusconi e Renzi. Ciò ha rafforzato il fronte del No ma non al punto da sovvertire le previsioni.

I parlamentari scendono quindi da 945 a 600, suddivisi tra 400 deputati e 200 senatori.

L’esito ha spinto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, a scrivere un messaggio su Facebook: “Quello raggiunto oggi è un risultato storico. Torniamo ad avere un Parlamento normale, con 345 poltrone e privilegi in meno. È la politica che dà un segnale ai cittadini. Senza il MoVimento 5 Stelle tutto questo non sarebbe mai successo“.

Anche Nicola Zingaretti è “soddisfatto” del risultato del referendum. Lo rendono noto fonti Pd. “È confermata la validità della scelta del Pd. Ora avanti con le riforme. Rappresenteremo anche molte delle preoccupazioni di chi ha votato No reputando insoddisfacente solo il taglio dei parlamentari”, sottolineano le stesse fonti.

Il referendum per il taglio dei parlamentari è un provvedimento fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, che ne ha fatto un vero e proprio cavallo di battaglia. Sul fronte del Sì, oltre agli esponenti del M5s, ci sono anche il Pd, la Lega e Fratelli d’Italia. Sul fronte del No, ci sono +Europa e Azione.

Non hanno espresso una particolare preferenza Italia Viva, Forza Italia e Leu, che hanno scelto di non condizionare la decisione dei propri esponenti ed elettori.

La legge è in vigore, ma non operativa: nel senso che se si andasse a votare domattina  i cittadini sarebbero chiamati a eleggere 630 deputati e 315 senatori. La legge sarà operativa non prima di 60 giorni dall’entrata in vigore: i tempi tecnici per il ridisegno dei collegi. Al di là di questo aspetto — tecnico — ce n’è uno più politico: quello legato alla riforma della legge elettorale, che dovrebbe ora essere messa in cantiere in tempi  rapidi. Il ridisegno dei collegi potrebbe avvenire dunque dopo il varo di una nuova legge elettorale e in questo caso il taglio dei parlamentari rimarrebbe, in qualche misura, «congelato».

È importante ricordare anche che il taglio dei parlamentari non si riferisce all’attuale assetto di Camera e Senato: non ci sono, in altre parole, oltre 300 parlamentari che domattina perderanno il posto di lavoro. L’attuale parlamento resta pienamente legittimo, e la sua «formazione» non cambia. E né nell’attuale Parlamento, né nel prossimo, cambieranno le funzioni delle due Camere: il bicameralismo italiano resta, al netto di future e al momento imprevedibili riforme costituzionali, «perfetto».

Dopo il ridisegno dei collegi, in ogni caso, Camera e Senato saranno ridotte di poco più di un terzo (del 36,5%, a voler essere pignoli). Oggi c’è un deputato ogni 96 mila abitanti, con il taglio ce ne sarebbe uno per 151 mila. A Palazzo Madama oggi siede un senatore ogni 188 mila abitanti, con il taglio ce ne sarebbe uno ogni 302 mila. In questo grafico ci sono i confronti con gli altri Paesi europei.

L’ufficio studi di Montecitorio ha preparato un confronto con gli altri Paesi europei, prendendo in considerazione solo le Camere «basse» (come quella dei deputati, il Bundestag tedesco e la Camera dei Comuni britannica), dal momento che le Camere alte hanno modalità di selezione e funzioni che variano da Paese a Paese (diverse, ad esempio, non votano la fiducia al governo). Un confronto interessante, anche se in Italia, come si diceva sopra, la situazione è di bicameralismo perfetto — dunque non esistono, quanto alle funzioni e ai poteri, una camera «alta» e una camera «bassa».

Quanto si risparmierà, con il taglio di 315 parlamentari? I compensi dei parlamentari variano, c’è la paga base e c’è la diaria, le indennità di carica e altre voci. Possiamo però considerare in media un compenso, rimborsi inclusi, di 19 mila euro e rotti per un deputato e poco di più, tra 20 e 21 mila euro, per un senatore (nei bilanci di Camera e Senato si può ricavare una media di circa 230 mila euro di compenso annuo per deputati e di 250 mila euro per senatore). Si arriva a un risparmio annuo di 53 milioni alla Camera e di 29 milioni al Senato. L’Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli ha fatto notare come, però, sia importante considerare anche le cifre nette. Parte dei compensi torna allo stato sotto forma di tasse: calcolato sullo stipendio netto il risparmio sarebbe di 37 milioni per la Camera e 27 per il Senato. A queste cifre vanno aggiunte le spese «generali» (gestione degli uffici, dalla cancelleria ai telefoni, fondi ai gruppi, ecc..) più difficili da quantificare (secondo alcune stime, si tratta di circa 30 milioni).

Per alcune regioni, come Basilicata, Molise e Umbria, il taglio è di circa il 33%, per altre si arriva al 39; in Abruzzo c’è un deputato ogni 145 mila abitanti, in Liguria poco meno (uno ogni 157 mila). In Senato le forbici del taglio hanno movimenti più ampi: il Veneto, ad esempio, perde il 33% degli eletti, la Basilicata il 57%.

Il Senato è eletto su base regionale e oggi la Costituzione prevede per ogni territorio un numero minimo di seggi: sette senatori per ogni regione (tranne due per il Molise e uno per la Valle d’Aosta). Con il sì il numero minimo diventa di 3 senatori per regione o provincia autonoma. La quota minima è prevista per Basilicata e Umbria, 4 senatori avranno Friuli Venezia Giulia e Abruzzo, 5 Liguria, Marche e Sardegna. Le differenze tra una regione e l’altra sono più marcate: se la Basilicata avrà un senatore ogni 193 mila abitanti, Abruzzo e Sardegna ne avranno uno ogni 327 o 328 mila.

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